lunedì 10 giugno 2013

Bruce a Milano, 3.6.2013, il ritorno a Camelot

Non è possibile usare ulteriori e nuovi aggettivi per definire la musica, le liriche e l’atteggiamento sul palco di Bruce Springsteen. La sua capacità d’essere padrone della scena, della folla, della sequenza di canzoni che, insieme alla band, vengono eseguite con l’improvvisazione di una bar band, o garage band che sia, lascia sempre a bocca aperta, con un misto di commozione e gioia, di voglia di gridare al cielo la propria felicità manifestando, magari con le lacrime la propria commozione. E tante sono state le lacrime spese dal pubblico come il grande schermo centrale ha potuto documentare. Stadio pieno (con la solita nota dolente dell’acustica non particolarmente adeguata…) e pubblico in trepida attesa.
Una festa della musica con differenti generazioni che si sono ritrovate, gomito a gomito a condividere questo straordinario momento di felicità. C’era tutto il “campionario”: da ultrasettantenni a bambini delle elementari con i propri genitori venuti a vedere se la leggenda del rock and roll è ancora capace di dimostrare che “oltre di lui il diluvio”. E così è stato possibile constatare proprio dopo il diluvio torrenziale di suoni, parole, sorrisi, corse, abbracci, salti, professionalità esemplare, devozione e rispetto verso il pubblico. Che comprende e, da sempre, ricambia. Tre ore e mezza di concerto: non male per un sessantaquattrenne che ha saputo dimostrare d’essere sempre al top della forma artistica piegando a sé gli anni, suoi e della band. L’ingresso, alle 20 e 12 minuti è da commozione perché quando Bruce e Steve vedono la coreografia sul terzo anello con la scritta “our love is real” si percepisce, in entrambi un moto di stupore e di commozione per quella sorpresa inattesa. Lo sguardo di Bruce, in particolare manifesta gioia mista ad una sorta di malinconia quasi che quella empatia così profonda e sincera fosse una sorta di carico difficile da recare con sé. Ma è un attimo, è solo un attimo, perché subito parte, roboante, il saluto di Bruce con un “Ti amo Italia” a cui il pubblico del prato risponde mostrando migliaia di cartoncini con l’immagine della bandiera italiana. Un altro regalo inatteso che merita l’immediata partenza di una roboante Land of hope and dreams che Max Weimberg aggredisce con il suo drumming devastante. Sul palco sono presenti 5 fiati, più il sax di Jake Clemons, tre tra coristi e percussionisti, Susie Tyrrel al violino, Charlie Giordano all’organo, Roy Bittan al pianoforte, Garry Tallent al basso, Steve Van Zand alle chitarre, mandolino e voce, Nils Lofgren alle chitarre e banjo, Max Weinberg alla batteria (probabilmente d’acciaio…) e poi lui, Bruce Springsteen. Questa la line up prodigiosa che si è presentata sul palco del Meazza e, come lo scorso anno, ha ammaliato il pubblico dei sessantamila arrivato, festoso, all’evento. Il pubblico è già in delirio non appena partono le prime note della canzone e le braccia si alzano festose verso il cielo a segnare un’appartenenza totale alla storia di questo scugnizzo del New Jersey così tanto amato da ormai quarant’anni. Il finale è quasi gospel ed introduce, tutti, ad una sorta di ufficio sacro dove il Boss è il Papa del rock and roll e la band rappresentano i suoi fedeli vescovi (non papabili…). Cambio veloce di chitarra con la vecchia e fedele Fender Esquire del 1952, imbracciata con sicurezza e fiducia dei suoi mezzi tecnici, e Bruce dà la scossa con My love will not let you down con Max efficace macchina del ritmo e Roy che lancia strali di note dal suo pianoforte. Il suono è compatto e viene data forza alla parte elettrica con le tre chitarre che si allineano e dardeggiano suoni feroci. Il pubblico sul prato (e non solo) salta all’unisono dando una sensazione di essere come di un campo di grano attraversato dal vento. Il vento del rock e della passione. Bruce sorride evidentemente compiaciuto dell’inizio del concerto mentre la sezione fiati fa gemere i suoi strumenti che regalano raffiche stordenti di soul. L’intro di Out in the street è subito raccolta dal pubblico che, immediatamente, segue le note gorgheggiando al suono della melodia. La canzone è praticamente un gioco di rilanci tra Bruce ed il pubblico e mentre parte l’assolo potente di Jake il diavolo del Jersey si avvicina al pubblico ed inizia a camminare sulla passerella dispensando sorrisi e strette di mano ricevendone, in cambio, sia volti gioiosi che vigorose pacche alle gambe. Il pubblico è in chiaro visibilio e vorrebbe che la canzone, in cui si sente parte attiva, non terminasse mai. Ma così non è ed al suo finire Bruce inizia a raccogliere alcuni cartoncini, fogli, striscioni sui quali sono indicati i titoli di alcune canzoni (ne abbiamo visto anche uno con scritto “Oh mia bèla madùnina…”) mettendoli sul palco. E la prima canzone che viene “estratta” è American land e, dopo averla mostrata al pubblico ed alla band, la batteria di Max parte in un drumming da marcia militare accompagnato da uno squillante suono del violino di Susie. Doppia fisarmonica, tamburo, violino, ritmo percussivo: la sarabanda in salsa Irish è perfetta e dalle liriche di Bruce emergono i sogni ed anche gli incubi della nascita e della crescita dell’America. Sogni ed incubi  vissuti soprattutto da coloro che partirono dall’Europa per cercare lavoro e speranza in quel nuovo mondo. La famiglia Zerilli e la famiglia Springsteen tra questi…Il mandolino di Steve addolcisce il suono mentre la sezione fiati regala note che urlano il desiderio di libertà e di giustizia che, spesso, quella terra di presunto “latte e miele”, non ha garantito ai più umili. Bruce, gambe larghe e chitarra a tracolla davanti al pubblico porta la canzone fino alla sua conclusione e, non lasciando lo spazio per pensare, ha già pescato un’altra delle canzoni richiesta dal pubblico. E’ la storica Long tall Sally del grande Little Richard. Sempre con la fidata Esquire tra le braccia parte un attacco, sonoro e canoro che avrebbe sconvolto anche l’autore del brano. Roy è un torrente in piena con il suono honkytonk generato dal suo pianoforte, i fiati sono irruenti ed esaltanti. La presenza sul palco di Bruce è poderosa e spazza via ogni possibile confronti con altri rocker, presenti, passati e, si presume, futuri perché lui non rappresenta più, da tempo, il futuro del rock and roll: lui è il rock and roll…! La voce gioca con i rimandi del pubblico ed il finale, con il contributo della sezione vocale e percussionistica, è da profumo di rhythm and blues. A Torino, sembra ieri ma sono passati già tre anni, aveva aperto con Loose ends ed attraverso un grande e sonoro accordo di chitarra questa canzone viene riproposta al pubblico. Nils è all’acustica e si propone come generoso supporto al sax caldo e sensuale di Jake. La versione è proposta in maniera morbida e coristica e quando Bruce e Steve si avvicinano al microfono per cantare assieme partono, immediate, le immagini del passato, di un tempo in cui la storia era appena incominciata e nessuno poteva immaginarne il percorso glorioso…Arriva anche il tempo del “nuovo” e Wrecking ball, aperta dal bel suono di una Fender scura e lucente all riverbero del tramonto e dalla voce sola di Bruce. Il climax è morbido ed il suono dell’organo in sottofondo lo rende ancora più vellutato. Il suono si fa via via percussivo grazie al lavoro della band mentre Bruce si “mangia” la canzone aggredendola con la sua usuale forza e potenza interpretativa. La canzone si eleva nel ritmo con i fiati a fare la loro parte e le chitarre a confezionare trame sonore di prim’ordine con la sezione ritmica che pare un inarrestabile treno in corsa. Pare finito ma Bruce si ferma e cerca il silenzio, che gli viene restituito con la sola presenza del battere del tempo da parte del pubblico. Bruce riparte con il canto “solo” che altro non è che l’incipit alla successiva sarabanda sonora della band che fa esplodere il prato con il pubblico che salta a più non posso, stregato da quel sabba infernale. La sezione fiati ed il sax di Jake dettano le danze e tutti gli strumenti sembrano una sorta di fornace ardente dalla quale scaturiscono lapilli incandescenti che il pubblico “cerca” come una sorta di viatico di felicità. Death of my hometown viene introdotta da tocchi potenti della chitarra elettrica di Bruce che sembrano rintocchi di antiche ed ancestrali campane. Fisarmoniche, violino, tamburo, sezioni fiati diventano il supporto su cui si posa la voce di Bruce. Il suono è in fiera dimensione Irish ed il martellare del tamburo rende marziale l’incedere della canzone. Nils si esibisce con un bel banjo elettrico di colore verde che si accompagna la suono del violino ed a quello del tamburo suonato, per l’occasione, da Jake. Il palco brilla sia per la luce che si proietta su di esso che per quella generata dal suono che rende ammirabile la visione di tutti quei musicisti impegnati a non deludere il loro Boss. Il finale della sezione fiati è una sorta di inno alla gioia che irrompe nei cuori di tutti i presenti…Arriva il crepuscolo e si manifesta una canzone che del crepuscolo è figlia. Sia perché inclusa nell’album più oscuro della discografia springstiniana, “Nebraska”, sia perché Atlantic city è proprio un miracolo di equilibrio così come posta tra il giorno e la  notte. Il suono del violino, del mandolino di Steve e dell’organo di Charlie rappresentano la trama sonora principale che introduce  la voce di Bruce. Il basso ha il suono stordente di una notte piena di apprensioni e Garry è un maestro nel costruire suoni potenti e quasi invisibili. Il pubblico riempie lo stadio di braccia alzate mentre cala, lentamente, il silenzio. Il suono del basso e dell’organo riprendono “posizione” accompagnando la voce di Bruce che si trasforma in una sorta di recitativo. Poi tutto si trasforma in un empito di soul con la voce potente di Bruce che chiama a raccolta la band mentre il mandolino sprizza scintille, la batteria esplode di colori ed il violino ingentilisce il tutto mentre il pubblico arriva all’epilogo della canzone felice per questa ulteriore manifestazione di pathos. Inattesa, come ad accompagnare il buio, arriva The River. Armonica, voce solo, atmosfera da brivido. Pianoforte, violino e chitarra di Steve sono il compendio a questo brano straordinario e commovente. L’armonica di Bruce strappa il cuore perché quella canzone narra la storia della vita, narra di un’America piena di contraddizioni e povertà, narra di un Paese che si è interrogato, stranito, sulla guerra del Vietnam e sulle sue conseguenze, narra di un mondo in trasformazione e non più compreso, narra di come si può entrare in se stessi ed uscirne un po’ “ammaccati” nell’anima ma non domi, non sconfitti, non depressi. Il pubblico sussurra la melodia e Bruce ascolta e poi riprende  la canzone con l’armonica che è sempre più una sorta di lamento ed i gorgheggi di Bruce ricordano quasi un canto tribale dei nativi americani. La commozione è palpabile da parte del pubblico e qualche volto in lacrime lo si può intravedere dalle immagini rimandate dagli schermi. Forse non la sua migliore versione ma certamente un’appassionante dimostrazione d’amore verso questo brano di dolente bellezza. Bruce ha finito di ammaliarci, per ora, e subito parte con il parlato ricordando che “Questa notte è la quinta volta che vengo a San Siro in concerto in questo stadio speciale che mi ha lasciato uno speciale sentimento nel cuore. Il primo concerto lo abbiamo iniziato con Born in the USA e questa sera suoneremo tutto l’album!” Lo stadio esplode in un grande boato e non c’è neppure il tempo per prendere coscienza di ciò che avverrà che già parte la batteria di Max che apre alla valanga sonora di Born in the USA. Il brano, potente e strabordante, è suonato da Bruce con la sua vecchia Esquire e mentre le note minacciano i timpani dei presenti, lo stadio trema sotto i piedi dei sessantamila facendo sentire il movimento della struttura. La band è come un tornado e Bruce guarda diritto di fronte a se il pubblico. La batteria è tonitruante e torrenziale ed il suo assolo pare davvero infinito, quasi orgiastico. Ma qui non c’è solo la musica a dettare legge bensì uno sguardo sul periodo in cui l’album è stato pubblicato. L’era reganiana, l’inizio della deregulation, le fabbriche USA in chiusura, la disillusione del sogno americano che sarebbe diventata tragedia a partire dal 2001 con l’11 settembre, le guerre in medio oriente, la crisi economica. Questa non è solo una canzone ma l’immersione in un tempo lontano i cui problemi, però, sono ancora ferocemente presenti. E Bruce c’era ieri e c’è ancora oggi. Come si dice in questo caso “è venuto giù lo stadio” dalla gioia e dalla partecipazione del pubblico che si è “bevuta” la canzone in maniera bulimica. Subito parte il piano di Roy per l’intro di Cover me, il cui suono brillante è accompagnato dalla sezione fiati ritmica e suadente; Bruce parte con un assolo che mette sotto torchio la sua old Esquire che è ancora un esempio di grande qualità tecnico-strumentale. Un brano, questo, cantato e suonato come fosse un grido di battaglia che Nils pare assecondare con una sorta di danza indiana, roteando intorno a sé mentre accende l’ennesimo assolo. Una versione profondamente rock che incendia, se ancora ce ne fosse bisogno, tutto lo stadio. L’attacco immediato di Darlington County attende la voce del pubblico che si prende immediatamente lo spazio che gli viene concesso, accompagnando l’intro della canzone. Bruce scende verso il pubblico sorridente ed evidentemente soddisfatto. La voce è chiara ed efficace come un pugno nello stomaco. Cammina cantando accanto al pubblico scambiando saluti, abbracci e sorrisi regalando altri momenti di felicità ai fortunati spettatori avvicinati dalla sua presenza. Intanto dal palco la macchina della E-Street Band macina suoni, con Jake che fa fluire note calde dal suo sax. La versione è potentemente soul ed il pubblico canta felice il ritornello. Bruce corre sulla passerella con il violino di Susie e la chitarra di Steve che duettano con grande meraviglia. Il sax di Jake va chiudere con un intervento strumentale di cui lo zio Clarence sarebbe fiero. Chitarra acustica brillante e passo saltellante verso il pubblico sono l’ingrediente primo di Working on the highway. Il suono è caldo e vitale, la voce modulata e suggestiva, il pubblico canta con Bruce mentre i fiati danno linfa vitale al racconto cantato. Una linfa veloce, allegra, frenetica, strepitosa. Un caos organizzato di suoni splendido e vigoroso, lucente, ricco di spunti di felicità Bruce, da rocker consumato, balla e canta in una sorta di limbo solare. E’ contento e si vede e si sente mentre manifesta tutta la sua professionalità, con semplicità e serietà. L’album ha ormai preso velocità e questo lo si può immediatamente percepire in Downbound train, dove siamo trascinati in un vortici di suoni caldi, cupi e suggestivi al contempo per una canzone ricca della contradditoria grandezza della malinconia. Le chitarre elettriche si incrociano tra loro in maniera morbida per dare sostegno e consistenza ad una versione pulita e perfetta e l’aria dell’85 è sempre più presente nello stadio. Gli accordi dell’organo e del piano rappresentano un mix sonoro che contamina quello delle chitarre e le sonorità della batteria che non perde mai una battuta. Ora è buio, l’organo e la batteria sono misurati e ritmati, mentre la voce con il suono del basso alle spalle è soffice, quasi da crooner. Le immagini che arrivano dallo scandire delle liriche e dallo scorrere delle note manifestano una passione inesaudita. Si tratta di I’m on fire che viene a bussare all’immaginario di ciascuno dei presenti. Il pubblico canta il ritornello quasi obnubilato da quel suono caldo e misterioso che si insinua all’interno dello stadio, all’interno dei cuori, nel profondo di ogni immaginazione. No surrender è un altro colpo basso, anche se atteso visto la scansione delle canzoni dell’album. La batteria è imperiosa nel suo incipit e la band parte come un missile con l’immediata partecipazione del pubblico a questa grande catarsi musicale. La E-street band si dispone come testuggine guerriera, macinando suoni, parole, emozioni, suggestioni e creando una sorta di apoteosi collettiva, con le chitarre che stillano suoni al calor bianco, Bruce e Steve insieme al microfono a cantare la canzone sulla lealtà e sulla fiducia, ad ogni costo e nonostante tutto. Il pubblico riprende in coro, come da copione, la melodia di accompagnamento, aizzato da Bruce che apprezza, come sempre, questo momento di gioia collettiva. Arriva il momento di Bobby Jean e le braccia del pubblico, come fossero comandate da un telecomando, iniziano a roteare tanto da apparire come uno dei misteriosi disegni nel grano. Grande suggestione visiva ma anche di emozione collettiva per un brano che racconta del valore dell’amicizia e viene subito da pensare a quante strade, quanti giorni, quanti dolori e gioie abbiamo attraversato accompagnati dalle canzoni di quest’uomo, di questo grande artista, di questo cantore del nostro tempo…Il sax di Jake geme implacabile nel costruire emozioni, la vecchia Esquire di Bruce si butta nella mischia creando un paesaggio di note calde e struggenti, per giungere, infine, davanti al pubblico con Jake sodale ed emulo dello zio Clarence. Il pubblico è parte attiva della canzone cantando, saltando, esultando, amoreggiando con la tempesta delle emozioni. Teste imbiancate che si muovono, mani giovani che si cercano, i pensieri che corrono lontano alla propria, al proprio personale ed unico Bobby Jean. La band, ovviamente stremata, non si permette, però pause e subito, neppure terminato il brano, è subito alla “caccia” di I‘m goin’ down con Bruce che giganteggia preso nel vortice di un rock stordente e diretto che ci riporta all’interno del mondo musicale di fine anni ‘50. Molto è lo spazio lasciato a Jake, che se lo prende senza nessun timore reverenziale, che dimostra d’essere ormai interamente integrato nei meccanismi, certamente delicati, della band nella quale lui rappresenta l’elemento più giovane. Ma il ragazzo se la cava davvero bene e la fine del brano lo vede ancora, maturo e deciso, accanto al suo Boss. Le note dell’attacco di Glory days fanno capire quale meraviglia di canzoni siano racchiuse nello scrigno dell’album che le contiene. L’organo rende presenti ed immediate suggestioni di antica fattura con il ritmo della canzone che si alza come una vertigine. Bruce e Steve sono davanti al pubblico a fare da avanguardia alla band e Steve, come un vero marpione, ridacchia alla spalle del capobanda come sorta di segno di arrendevolezza alle volontà di insaziabile voglia di “correre” di Bruce. Entrambi ingaggiano una sorta di duetto con il pubblico in un gioco di rimandi canori da brivido che danno la sensazione d’essere partecipi di un rito collettivo di straordinaria empatia. Spalle al pubblico Bruce lancia uno sguardo verso Max che parte in un assolo stordente e di grande vigoria fisica fino a raggiungere l’acme finale e liberatorio con un gesto di affetto da parte di Bruce per il suo fidato scudiero di tante battaglie e concerti. Un pubblico esausto applaude freneticamente l’ennesima, incredibile, performance. Il pubblico ora sa che cosa l'aspetta: è Dancing in the dark che fa ballare lo stadio inteso come pubblico E strutture. Il ritmo è potente ed intrigante, l'organo fa girare le note come un carillon impazzito, i fiati sono una sorta di replica di Eolo, così presi dal loro incedere senza fine. Lo stadio è illuminato a giorno e dagli schermi si può vedere lo sguardo di Bruce come pervaso da una gioia interiore, reale e profonda. La band è una macchina del suono perfetta e Max “spara” uno dei suoi assoli senza tempo: generoso, fragoroso, tonante, impetuoso. E' come un fiume che travolge una diga ma questa volta senza vittime ma con tutti i cuori felici. Il sax prende infine le redini del suono e conduce la canzone fino alla fine, ad una fine che non sembra arrivare mai. E' un tempo sospeso così come sospeso sembra quello che alcune delle ragazze “pescate” tra il pubblico vedono passare dinnanzi a loro “confuse e felici” d'essere là, con Bruce, sul palco. Una di loro, addirittura, avrà l'onore di imbracciare una chitarra acustica, suonare qualche accordo e cantare con la band sul palco... Una gioia che pensiamo indescrivibile per loro ed un invidia altrettanto indescrivibile per tutte le escluse da questa avventura...Una grande versione questa, senza la patina del pop danzereccio della versione dell'album e piena di suono rock, gaudente e felice. Bruce va al microfono e lancia un urlo: “Milano! Italia! San Siro!” che rende evidente la sua grande gioia d'essere in questo stadio, nella nostra città. L'epilogo è My hometown, cantata con voce sobria, essenziale ed accompagnata dal suono del basso di Garry. Le note dell'organo sono un sontuoso accompagnamento per i ricordi dell'adolescenza che affiorano dalle liriche di questa canzone e che rendono bene l'idea di come “Born in the USA” sia un album con le liriche rivolte a “Nebraska” ed i suoni con lo sguardo a “The river”. E' la lettura della realtà, della sua realtà di adolescente, che viene messa in mostra in tutta la sua debolezza che racconta il momento del passaggio dall'infanzia ad una consapevolezza della realtà. Una sorta di “Stand by me” non cinematografica ma musicale. Il pubblico fa il coro al ritornello che Bruce incoraggia pur mantenendo un profilo basso nell'esecuzione di questo brano. L'atmosfera, la voce, la partecipazione del pubblico, l'attesa, la lealtà, la ricompensa, l'amore, l'onore, la dignità, la lotta, l'onestà, il lavoro sono tutti soggetti fondamentali nella storia e nelle storie di Springsteen. Soggetti che fanno tremare il cuore perchè, se ci pensiamo, quest'uomo, con la sua musica, cerca di tenere lontana la morte dai nostri pensieri. Quest'uomo è parte di un universo che sente i presagi di questi tempi duri e meschini ma combatte, con coraggio e senza paura, affinchè quanto avviene sul palco sia la metafora della vita, sempre in pericolo ma, insieme, sempre pronta a resistere ed a risorgere quando si cade. E' finito il coro, è finita anche l'esecuzione di Born in the USA e la memoria si allontana da quel magico, mitico, indimenticabile, affascinante solstizio d'estate del 1985 quando una band proveniente dal New Jersey si impossessò di San Siro, non ancora Meazza, e ci stregò il cuore con una esibizione incapace di aggettivi....Potrebbe essere anche finita qui, la serata, ma fortunatamente non è così perché le note di Shackled and drawn ci portano all’attualità ed all’ultimo lavoro di Bruce. Il suono è Irish con iniezione robusta dei fiati che ricamano note intorno alla canzone creando un’efficace atmosfera quasi gospel. Bruce arriva davanti al pubblico come sospinto dal suono della sezione fiati e mette in atto il suo “solito” abbraccio con il pubblico. Il climax del brano è torrido e la voce di Bruce richiede al pubblico di accompagnarlo con un gioco perfetto di rimandi vocali. Il finale è da incorniciare con un’atmosfera davvero calda e sensuale con la band che danza sul palco all’unisono, come soggiogata dai voleri del suo maestro di cerimonie. Un attimo di respiro e si parte con Waitin’ on a sunny day con Bruce che canta con al fianco il suo amico e compagno d’avventure Steve Van Zandt. La canzone è luminosa ed i fiati danno una strabordante sensazione di gioia, colori e profumi di primavera e libertà. Il pubblico canta come fosse liberato dal giogo del quotidiano mentre i coristi danno corpo alla gioia dei musicisti che si dimostrano essere sempre all’altezza della situazione anche nei momenti di possibile e meritato rilassamento. E’, questo, un brano perfetto per il sax di Jake che non indietreggia davanti alla responsabilità dell’assolo e mentre Bruce cerca mani, sorrisi e saluti dal pubblico, spunta sul palco, “afferrata” dalle prime fila, una bambina che parrebbe non avere più di nove/dieci anni che canta il ritornello della canzone, senza incertezze e timori e mentre il pubblico applaude Bruce, come un nonno premuroso, sorride e se la issa sulle sue spalle affinchè anche lei possa vedere lo sterminato pubblico che l’ha appena applaudita. Anche questa volta la multi generazionalità del pubblico di Bruce (tanti erano i bambini presenti, così come una signora di 76 anni, fornita di sedia portata dal figlio musicista…). Dalla luce del sole alla luce della rinascita il passo è breve: The rising irrompe con il suo passo da battaglia per richiamare ciascuno a non arrendersi mai, a cercare, e trovare (sempre) la forza di reagire ad ogni avversità. La batteria e l’organo supportano la voce di Bruce con le loro trame potenti e suadenti al contempo mentre la slide di Nils compone una sorta di nenia per i cuori più affranti. Il gioco di luci sul palco è molto suggestivo con i colori del bianco e del rosso forse a ricordare quelli della bandiera americana e del contesto in cui questo brano, insieme all’omonimo album, venne scritto, nell’immediato dell’evento dell’attacco all’America, l’11 settembre del 2001. Il pathos generato dalla canzone è davvero profondo così come è efficace la compattezza della band che genera note su note, senza un attimo di tregua. Una grande cavalcata che a cui si aggancia, immediata ed altrettanto potente la sempre attesa Badlands che, alle prime note, innesca la voglia del pubblico di cantare e ballare (ed insieme ballano anche le strutture del Meazza…). L’effetto del tutto è davvero devastante con la old Esquire di Bruce che lancia staffilate di note intorno a sé, con il sax ed il piano a salire e scendere su note che vengono generate come acciaio in una fornace, il pubblico che canta felice ed ammaliato da tanta determinazione e lealtà percepita nei suoi confronti. E’ davvero un grande momento di osmosi tra pubblico, palco, band, Bruce che non smette di muoversi, di andare verso il pubblico delle prime fila, di far toccare loro le corde della chitarra e Max chiude con il assolo monstre che accompagna il pubblico al di fuori di quelle terre cattive dando una ulteriore spinta alla ricerca di un’altra e più vivibile realtà. La canzone finisce ma, come sempre, il pubblico continua a cantare accompagnando le movenze di Bruce che funge da maestro di cerimonie il cui volto, sudato e stanco, viene rimandato dagli schermi come trasfigurato dalla gioia e da quella luce che illumina i grandi artisti, pazzi, sognatori, utopici, visionari. Il “triplete” delle canzoni da stadio si chiude con la leziosa e cantabile Hungry heart che Bruce porge al pubblico con l’ulteriore desiderio di sentirne cantare il ritornello rendendoci sempre più consapevoli che le canzoni, alla fine, nono sono più solo di chi le scrive ma di chi le fa sue. Questa è la classica canzone da rimando vocale e Bruce si avvicina al pubblico camminando sulla passerella, cercando il contatto, auspicando una sempre maggiore “fusione” tra chi sta sul palco e chi, invece, ai suoi piedi. Lui, artista non divo, è sempre stato coerente al ruolo di collegamento tra i creatori ed i fruitori della musica ed il fatto che in tutta la sua carriera non si sia mai risparmiato lo testimonia. Alla importante età di 64 anni, infatti, le performances di Bruce sono uguali a quelle che proponeva 40 anni fa. Non può essere un caso ma frutto di uno spirito mai domo e coerente con il suo atteggiamento nei confronti della musica e della vita. Bruce e Jake sono ora davanti al pubblico e l’assolo di sax conduce la canzone verso la sua chiusura. Mentre il pubblico manifesta con ardore il suo visibilio, Bruce risale la scala verso il palco fingendo d’essere affaticato e barcollante. Sono le 22.52 e facendo avvicinare la band ai bordi del palco saluta il pubblico con un sonoro “Grazie mille San Siro”. Il concerto sarebbe finito ma non ci crede nessuno…e tempo qualche istante Bruce riappare per il bis. Chitarra acustica, buio sul palco, una luce su di lui, la luna sullo schermo centrale. Ora arriva un fantasma, il fantasma più vivo della storia della musica e non solo: quello di Woody Guthrie. Sono infatti le note morbide e delicate di This land is your land a riempire la notte. Chitarra, voce, armonica: questi gli ingredienti del canto dell’inno alternativo degli Stati Uniti d’America che Woody scrisse ormai settant’anni fa. Una versione da cantastorie, non ritmata, ma quasi raccontata. Grande il silenzio e la partecipazione da parte del pubblico che apprezza Bruce anche per la sua capacità d’essere in grado di spaziare dalla ballata acustica al rock più devastante. E’ la forza dei grandi…non la impari, la possiedi e basta. Il brano è terminato ed arriva una bella versione di We are alive con la band ritornata sulla ribalta con una partenza Irish piena di allegria e vigore con i fiati che corrono veloci tra impeti d’Irlanda e colori mariachi. La batteria corre un treno in corsa, inarrestabile e fragorosa. Una versione davvero potente che ne fa comprendere meglio l’intrinseca grandezza. Così come grande è l’attacco di Born to run, inarrestabile inno giovanilistico ma, anche, straordinaria ed inarrivabile testimonianza di coraggio e di decisione nell’affrontare la vita utilizzando le metafore più adeguate. La vecchia e fedele Fender Esquire tracima note in rapida successione ed il pubblico canta insieme al suo Jersey Devil che, implacabile, incita la band a dare il massimo e lei non tradisce costruendo un caleidoscopio di suoni di grande potenza. L’assolo di sax di Jake è sontuoso e costruisce il tappeto sonoro per giungere alla fine del viaggio di questa grande canzone che, ancora oggi, pur nella sua ingenuità generazionale, sa essere inno di speranza e di sguardo verso il futuro, nonostante ogni evidente e manifesta delusione della vita. In questa canzone è racchiuso, forse, il senso di più generazioni che si sovrappongono nello scandire le delusioni “senza mai perdere la tenerezza”. Non poteva mancare, nel rispetto della band, la strabordante epica di Tenth avenue freeze-out, luogo dell’ideale incontro tra la Bruce e la band, tra Bruce ed i suoi guerrieri della tavola rotonda del rock. L’abbiamo ascoltata mille volte questa canzone eppure, ancora una volta, ci strattona il cuore, muove le viscere, inneggia al soul. Bruce è matido di sudore, balla, canta, salta, sale sul pianoforte di Roy, si dimena come un tarantolato. Neanche James Brown sarebbe arrivato a tanto. Cammina a passo rapido accanto al pubblico che, se potesse, lo porterebbe in trionfo per la città. Siamo in pieno rhythm and blues, soul, pop, rock, siamo in qualunque cosa che si trasforma attraverso la potenza sonora di questo scugnizzo che, per nostra fortuna, anziché diventare un disadattato come forse avrebbe potuto accadere è diventato il “prigioniero del rock and roll”. Questo è il brano di presentazione della band che ha due titolari fissi ed onorari dal nome di Danny Federici e Clarence “Big Man” Clemons che appaiono in video e foto sul grande schermo portando una ventata di velata commozione in tutto lo stadio. Questi due protagonisti della storia della band ci hanno lasciato con il corpo ma che sentiamo sempre presenti sul palco, accanto a Bruce ed agli altri protagonisti di questa grande avventura. Siamo all’epilogo e buon senso vorrebbe che si passasse a ritmi più morbidi ma così non è e tutti sussultiamo alle note di Twist and shout che si trasforma, inevitabilmente, in La Bamba. La vecchia e fidata Esquire spara fendenti micidiali alla ricerca del fragore perfetto mentre la sezione fiati è ad un passo dal paradiso del suono e del sentimento. Il pubblico, in visibilio, canta e balla senza sosta facendo dondolare le strutture dello stadio e, se non bastasse, degli Isley Brothers viene proposta, giusto per rimanere nel tema, anche Shout che apporta un'altra iniezione di vigore e calore nelle vene dei presenti. Non è più un concerto ma un gesto d’amore che unisce, quasi come corpo mistico, due entità che si guardano negli occhi ma si compenetrano con il cuore: Bruce con la band ed il pubblico. Ed alla fine non si riesce più a capire chi è più contento e commosso. Questa volta è davvero finito tutto. La band esce sfinita e felice. L’età che avanza non fa sconti ma questi sono i cavalieri del Re ed a lui hanno giurato fedeltà. Non possono sfuggire alla loro sorte e responsabilità. Il pubblico ha come uno sbandamento perchè sa che la festa è davvero finita anche se lo spiraglio di un altro bis è fattibile. E nel buio della sera, con la luna a corona, Bruce rimane sul palco ed imbraccia la chitarra acustica e l’armonica e dopo avere salutato con un benevolo “questo posto non lo dimenticherò mai” parte con una struggente versione acustica di Thunder road che sbaraglia ogni possibile diga all’emozione e lo schermo rimanda l’immagine di tanti volti commossi ed in lacrime. La canzone scivola lenta come gli anni che abbiamo trascorso accanto a lui. La strada del tuono l’abbiamo immaginata, sognata, attraversata, combattuta, amata, odiata. La strada del tuono ci ha chiamato a raccolta molte volte ed altre ci ha rifiutato. La strada del tuono ci ha teso agguati, ci ha respinto, ci ha fatto soffrire. La strada del tuono, però, ci ha aiutato a crescere e a diventare uomini, ci aiutato a dare un senso al valore della lealtà e della libertà. Ci ha fatto paura ma ci ha consolato nei momenti di tristezza e di desolazione. Nella strada del tuono abbiamo incontrato anche il senso della vita nascosto tra le liriche e la musica di una canzone scritta da uno sfrontato ragazzo del New Jersey. E mentre scorrono le parole nella notte e la melodia dell’armonica scardina e denuda ogni difesa dei sentimenti, sul palco vediamo passare Woody Guthrie e Tom Joad, gli amori impossibili, il sogno americano, i reduci del Vietnam, i bombardati di tutte le guerre, i fuggiaschi narrati in “Furore”, gli ultimi della terra. I nostri amici scomparsi, i nostri amici perduti, i nostri antenati ormai ombre nella terra dei morti. Vediamo passare l’anima di Frank Capra e della sua America, la Nuova Frontiera ed il New Deal. Sentiamo l’odore dei nativi americani, udiamo il suono della foresta. Nelle note di questa canzone, cantata mestamente, quasi di nascosto, sentiamo nascosta la gloria degli umili e delle loro grandi speranze disattese. La strada del tuono è come la terra promessa: possiamo percorrerla fino in fondo ma non sappiamo se giungeremo mai alla sua fine. Terre promesse, strade di tuono, terre cattive, cuori affamati, nessuna resa, storie di fiume, storie di oscurità…Quante di queste storie abbiamo ascoltato in desiderosa attesa, quanta malinconia e gioia ci è stata dispensata in questi anni e tutte le volte che Bruce è passato dalle nostre parti italiche non ci siamo tirati indietro e lui non si è tirato indietro. Ci siamo incontrati, ci siamo guardati, abbracciati idealmente tra le note e le parole delle sue canzoni. Abbiamo abbracciato una sorta di fede intensa e sincera e ne siamo stati orgogliosi ed anche quando lui ha vacillato non abbiamo avuto dubbi dimostrando che “il nostro amore è reale”. Fuori da Palasport o Stadi abbiamo pensato che l’attesa valeva la pena ed abbiamo atteso, con festosa stanchezza, che iniziassero le danze, che si percepisse la sua presenza all’imbocco del tunnel ed il grido pieno di calore “Bruce, Bruce, Bruce…” non era stupido clamore adolescenziale ma il richiamo di un popolo innamorato del suo Re che mai ha vacillato, mai è indietreggiato, mai ha tradito. E quando abbiamo letto dei suoi problemi di depressione abbiamo compreso ancora di più quanto lui ci ha donato con set infuocati, con la voglia di spaccare il mondo, con la consapevolezza del tempo finito ma, anche, dell’infinito che ha saputo porre in ciascuno di noi. Ne eravamo certi da sempre ma alle 23 e 38 del 3 giugno siamo stati ancora più consapevoli che quell’uomo ci aveva dato una nuova, ulteriore lezione del senso della vita. Lo raccontavano gli occhi del pubblico, lo raccontavano i suoi occhi pieni di uno stupore della fanciullezza infinita che certamente alberga nel suo cuore per avere ancora la forza di sognare, di farci sognare, di amare e di farci amare la vita. Prima di vederlo dal vivo, prima a Zurigo, 1981 e poi a Milano, 1985, in molti si pensava che fosse una sorta di alieno leggendario. Dopo averlo visto dal vivi, più e più volte, abbiamo avuto tutti la certezza che questo è un uomo che ha saputo trasformare un sogno in realtà mantenendo, nel suo cuore, il meglio dei sogni e gettando alle ortiche ed agli stupidi ogni velleità di grandezza. Un video, alla fine del concerto, ha ringraziato Bruce per il concerto e per tutte le sue esibizioni nello stadio San Siro/Meazza. Ma il ringraziamento più grande è quello di tenere fede a quanto ascoltato tanti anni fa: “Abbiamo fatto una promessa ed abbiamo giurato che l’avremmo mantenuta: nessuna ritirata nessuna resa. Come fratelli di sangue in una notte di tempesta con un giuramento da rispettare: nessuna ritirata, nessuna resa.” Insieme a te, Bruce, rispetteremo il patto.

Rosario Pantaleo


    

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