La sua figura è sempre un’icona
dell’arte, della musica, della capacità di osservare il mondo e la vita con
occhi differenti rispetto anche agli standard medi dei colleghi musicisti.
L’età comincia certamente a farsi sentire, in particolare nell’estensione
vocale, ma il suo timbro, la sua capacità ammaliatrice, la sua dimensione
evocativa sono sempre un indelebile marchio di fabbrica.
Quando arriva sul
palco, alle 21.45, l’afa è davvero soffocante ma il pubblico che si è raccolto
davanti al palco sembra dimenticare il fastidio ed il disagio dato dal caldo
non impedisce il manifestarsi dell’affetto verso l’artista di Chicago che, con
il suo talento, ripaga tutti i presenti dei disagi e della passione che gli
dimostrano. Patti Smith non è più,
da molti anni, l’artista iconoclasta che abbiamo conosciuto e che abbiamo
apprezzato (qualcuno dei suoi colleghi ha anche provato ad imitarla, nel tempo,
con risultati di scarso peso e costrutto), che ci ha accompagnato nel corso
della nostra esperienza di vita. Non è più la poetessa del rock che lanciava
parole di fuoco, provocatorie e, qualche volta, dileggianti. Ma l’antica
passione, unita alla grande capacità magnetica di comunicare con lo sguardo,
con il corpo, con le sue movenze, con la modulazione della voce, è rimasta
inalterata e la performance tenuta ieri questa sera al Carroponte di Sesto San
Giovanni l’ha dimostrato senza se e senza ma. Un’ora e mezzo di concerto, in
mezzo al caldo asfissiante e sotto i riflettori, con la “messa in bella mostra”
del pathos che le si riconosce, possono piegare anche un giovane virgulto del
rock, ma quest’anima senza tempo e senza etichette, è riuscita a tenere testa
anche alle difficoltà climatiche della stagione. La band, con il fido Lenny Kaye al suo fianco, sempre più
magro e sempre spalla preziosa per Patti, è stata il prezioso sostegno
all’esibizione (anche se il suono del basso era qualche volta eccessivamente
invadente disturbando la voce della leader) che ha visto mettere sul piatto,
tra le altre, un’incendiaria versione di Horses,
cantata con uno spirito tribale davvero intenso, con il suo scivolamento finale
in Gloria che ha fatto il paio con una profonda Pissing in a river, colma dei suoi ricordi giovanili. Un momento di
incertezza che, paradossalmente, ha ricevuto una valanga di applausi, è stata
la sua versione di Summertime blues
che, nel finale, è andata a ramengo. Ma ci sta perché Patti Smith non è nuova a
questi infortuni e, nel corso delle sue scuse il pubblico, anziché
disapprovare, ha applaudito con molta foga e passione la “sua” musicista. Redondo
beach, con il suo incedere reggae, è stata una sorta di profumo, di freschezza
nel caldo della serata. Un brano, questo, capace di mettere sempre di buonumore
anche nei momenti di stanchezza e/o di agitazione. Un brano che ormai ha
superato i quarant’anni ma che non ha perso la sua forza e la sua dimensione di
apripista. Due dediche hanno colpito, in particolare, il pubblico. La prima
dedicata a suo marito Fred “Sonic” Smith
e a chi era presente ai concerti italiani di Firenze e di Bologna, del 1979
(personalmente chi scrive era presente a quello di Firenze). Quei due concerti
rappresentarono la prima apparizione italiana dell’artista americana attesa,
allora, come una sorta di angelo della poesia e della dissacrazione. Li ricordo
come set intensi, con molto pathos ma, insieme, colmi di tensione. Gli anni
erano davvero di piombo e l’atmosfera era particolarmente cupa, elettrica,
colma di possibili scontri e violenze che, complice l’innocente esposizione di
una bandiera americana da parte su, si manifestarono. E la canzone dedicata è
stata l’immancabile Because the night
(che Bruce le donò al tempo delle registrazioni di “Darkness of the edge of town”, lui, “Easter”, lei…) suonata in una versione non particolarmente ficcante
e/o “punk”, ma con il giusto feeling e climax dettati dall’età. Un’età che non
ha però dimenticato quella grinta che ne ha sempre connotato la dimensione
“live” e che non le ha impedito di lanciare occhiatacce verso lo staff tecnico
all’inizio del concerto seguite da veementi rimbrotti al medesimo. Ma è anche
questo parte del personaggio che, probabilmente, in questo modo ha la
possibilità di placare la naturale ansia e tensione che può intervenire a
“urtare” la dimensione umorale di un artista. La seconda dedica, neanche tanto
inattesa viste le foto provenienti da Piazza San Pietro qualche settimana fa, è
stata dedicata a Papa Francesco. La
scelta, forse inevitabile, è caduta su People
have the power, cantata con molto trasporto e che lei ha sollecitato al pubblico
in una sorta di “recall” coinvolgente. Patti Smith ha sempre dichiarato di non
essere credente ma ha sempre avuto un certo feeling con il tema religioso tanto
da dichiarare, in pieno furore punk degli esordi, la sua passione per Papa Luciani. Evidentemente oltre i
temi religiosi e di fede quello che lei percepisce in questo pontefice è la
grande forza comunicativa e l’afflato verso gli ultimi e la sua radicalità
nell’andare al centro del messaggio evangelico. In ogni caso la versione ha
funzionato bene con il pubblico che ha seguito il ritornello con voglia,
trasporto, attenzione. E per non fare dimenticare, comunque, da dove arriva
tutta quella verve, quali le fonti a cui lei si è abbeverata negli anni della
costruzione dell’artista Smith, nel periodo d’oro ed in quello del silenzio, la
chiusura è stata affidata ad un’incendiaria versione di My generation che ha portato sul palco quella furia esistenziale
che è stata la molla che ha fatto emergere, dagli scantinati del tempo e della
storia dei primi anni ’60, quelle band
seminali che avrebbero portato nel mondo, fisico e mentale, il verbo del rock
che, come, nel caso degli Who e del
brano con cui si è concluso il concerto, ha dimostrato di non avere e perso,
dopo cinquant’anni, la forza evocatrice e comunicativa che gli si riconosce. E,
forse, per rendere ancora più manifesta le ragioni dell’attaccamento a questi
suoni del passato che, invece, è sempre presente, alla fine del brano Patti ha
rotto le corde della bellissima Fender Stratocaster che ha strimpellato
sul finale. Una scusa per poterla “dilaniare” a rischio di tagliarsi le mani…Ma
lei è fatta così…Che dire d’altro…In tutta onestà la “ex tutto del rock” aveva
lasciato, in precedenti concerti, segni più profondi e preganti nei suoi set.
La ricordiamo in uno spettacolare concerto all’Alcatraz, nel 2005, con un set incendiario, rock, dal tiro punk,
pur inframmezzato da ciliegine melodiche da k.o. Poi nel settembre del 2010,
alla Biennale in Bovisa, insieme a La
casa del vento, aveva proposto forse uno dei più bei concerti italiani di
cui ricordo una versione di Beneath the
southern cross, dedicata a suo marito Fred “Sonic” Smith, di rara emozione. Però è anche da ricordare
che la voce, com’è naturale non è più la stessa (anche se sempre molto ben
curata ed impostata) e che l’età limita la resistenza fisica (non tutti sono
come Springsteen…ma lui non è umano…).
Non da ultimo che, comunque, la forza e la decisione che mette nella
declamazione/recitazione delle canzoni è sempre di grande e rara forza emotiva.
Come il pubblico non ha mancato di
constatare nella poesia che ha recitato dopo i primi due brani del concerto. In
ogni caso a questa artista non si può imputare niente ma “perdonare”, se
dovesse essere necessario, tutto. Perché è stata coraggiosa all’inizio della
carriera, ha dimostrato di avere capacità di inaudita forza caratteriale ed
artistica. Da non dimenticare l’apporto della sua band con il citato Kaye alla
chitarra, Jay Dee Daugherty (con
Kaye quasi dagli esordi della Patti Smith Band) alla batteria, Tony Shanahan alle tastiere e basso e Jackson Smith alla chitarra. Una band
che ormai va a memoria ma che ha la capacità di assecondare la sua leader con
grande sobrietà e discrezione. Patti Smith non deve essere considerata un’icona
della musica rock o come il reperto geologico di un’epoca ormai lontana. La sua
personalità umana ed artistica ha dimostrato, nel tempo, di possedere capacità
poliedriche di rara capacità espressiva. Ha saputo “abbassare i toni” quando
era all’apice della carriera, assumendo il ruolo di consorte e mamma con
sacrificio e naturalezza. Ha seguito i figli con attenzione dopo la morte di
suo marito, ha subito la morte del suo amato fratello Todd…Non è stata una
passeggiata la vita di Patti, come ha ben illustrato il suo bel libro
autobiografico “Just Kids”. Alla sua
figura, comunque, è sempre stato riconosciuta una dimensione di lealtà e di
coerenza espressiva con pochi eguali. La sua storia discografica e la sua
esperienza sui palchi di tutto il mondo, così come la sua capacità di
affrontare, da donna, il mondo musicale del rock, essenzialmente maschilista e
misogino, ha rappresentato la dimostrazione che quando si possiedono, nelle
giuste dosi, carattere, idee, inventiva, doti artistiche, sfacciataggine,
capacità poetiche, carisma, magnetismo, immagine, coerenza, è possibile
guadagnarsi la stima ed il rispetto dei colleghi, del pubblico, della stampa.
Ma soprattutto la credibilità di salire su un palco, a 64 anni, in una calda
serata milanese e cantare, senza timore del ridicolo, canzoni “antiche” che,
grazie alla sua forza interpretativa, non perdono in credibilità e forza. Anche
questa è Patti Smith.
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