mercoledì 26 febbraio 2014

bentornato Eugenio....

Eugenio Finardi, Fibrillante

Quindici anni fa, dopo la pubblicazione dell’album Accadueo, Eugenio Finardi decise che era venuto il momento di mettere “a riposo” l’artista Finardi e di guardare al mondo musicale con lo spirito inquieto, curioso, onnivoro di Eugenio.

Uno spirito indomito, capace di arrivare con l’immaginazione prima, e con i fatti, poi, a costruire una serie di percorsi artistici che ne hanno connotato un'importante parte della carriera.
Il progetto del Fado (con Marco Poeta e Francesco Di Giacomo del BMS), l’interpretazione dei brani di Visotskji, l’esplorazione del mondo blues (qui sotto la cover del disco che gli portò davvero fortuna con oltre 150 date nel giro di un paio d'anni) e di quello dello Spirito, le rappresentazioni teatrali, le ampie incursioni nel mondo della musica classica contemporanea con Sentieri Selvaggi di Carlo Boccadoro (e come non ricordare, sempre con il maestro Boccadoro lo straordinario concerto alla Scala di Milano del 27 gennaio 2010 con gli Entr’Act, un successo vero che gli permise di ritornare anche l’anno dopo…) sono stati il segno distintivo del suo essere artista a tutto tondo (manca forse qualche spruzzata di jazz, ma su questo voci di corridoio danno per certo un suo prossimo lavoro intorno a queste sfumature.
Sono stati anni di intenso lavoro, di serrato confronto con se stesso e con la propria capacità di rimanere punto di riferimento della musica italiana. Poi, con i sessant’anni anagrafici è giunto il disco omonimo con il quale (insieme ad alcuni inediti) raccoglieva e raccontava il suo percorso artistico, ridandogli nuovi colori musicali grazie alla giovane band che lo accompagna da circa tre anni (qui sotto nella foto con lui, da sinistra, Marco Lamagna, Paolo Gambino, Claudio Arfinengo e Giovanni 'Giuvazza' Maggiore).
Da questo momento l’artista Finardi ha ricominciato a prendere forma e Fibrillante rappresenta il segno del suo “nuovo ritorno”. Ma non si tratta di un tornare a ricalcare suoni già ascoltati bensì della voglia di raccontare, con suoni accattivanti e diretti, la storia di questi tempi nel quale il personale ed il politico, come si diceva un tempo, si fondono in maniera davvero naturale. Fibrillante è un album intenso e potente, con liriche che raccontano dei nostri giorni e delle loro pene, delle fatiche del quotidiano e della difficoltà nel sentirsi liberi e ricchi di dignità. È un album da “combattimento” attraverso il quale sorge l’urgenza di indignarsi (ed è Eugenio stesso che lo fa per primo) per quanto ci accade accanto e che spesso ci lascia indifferenti e poi, inesorabilmente, ci colpisce travolgendoci…
Per questo e per mille altri motivi, è un album che merita di essere ascoltato più volte. E allora proviamo a scendere meglio tra le pieghe dei brani dicendovi subito che durante l’ascolto, oltre ad Eugenio e i suoi musicisti, s’incontreranno altri artisti (la voce di Manuel Agnelli, quella di Tommy Cerasuolo e Gigi Giancursi dei Perturbazione, così come il tocco inconfondibile di un amico di vecchia data come Patrizio Fariselli) che arricchiscono ulteriormente il lavoro.
Aspettando, brano d’apertura, è il desiderio di un futuro (“…di avere un ruolo e un posto nella società e sicurezza nel futuro…”), con la speranza di essere cittadino integrale con i suoi doveri ma, anche e soprattutto, diritti. I suoni, simil-etnici, con inflessioni morbide, accompagnano la sua voce asciutta. Ma subito dopo arriva l’invettiva apocalittica, perché sembra che il protagonista della precedente canzone si trasformi e diventi Come Savonarola ( https://www.youtube.com/watch?v=_doonUGFCCk ) e dalle sue parole si apre, subito dopo, un fiume di accuse contro coloro che hanno spento i sogni di una e più generazioni (“E il mondo che sognavo e tutto ciò per cui lottavo, ora sembra inutile…”). Parole dure, parole che innestano il pubblico ed il sociale in una maniera sofferta ma, al contempo, mai nichilista anzi con il desiderio che - soprattutto per le nuove generazioni - si apra un nuovo squarcio di speranza per “una vita che sia umana, più libera e più sana di giustizia e verità”. La voce è in primo piano ed il suono degli anni ’70 si manifesta anche attraverso un passaggio di tastiere che ricorda molto Diesel.
Lei s’illumina è una splendida ballata “finardiana” (con voce narrante quasi fosse una ninna nanna, con atmosfera morbida e sognante) nella quale l’artista milanese raggiunge il cuore delle persone identificandosi, mirabilmente, nello spazio intimo di una moglie, di una mamma, di una casalinga, descrivendone un frammento di giornata. Un piccolo ritaglio nella vita di qualunque donna ed uno spunto per una doverosa riflessione sullo scorrere del tempo e del mutare delle emozioni (“Ha un marito che una volta ha amato e a cui vuole molto bene, stanno ancora bene insieme ma qualcosa si è trasformato. Non c'è più quella passione ma la calda rassegnazione, serena soddisfazione di un intimo legame…”). Piccola poesia del quotidiano ricca di sobrietà per la vita, citando Finardi stesso, che ci ricordava come l’amore, la vita “è fatta di gioia, ma anche di noia…”.
Fortemente calata nei giorni nostri è Cadere Sognare, composta da un suono onirico e volutamente accattivante, perché racconta di quello che sta capitando sempre più spesso nelle famiglie di mezzo mondo, di tre quarti dell’Europa, di tutto il nostro Paese, di Milano, del nostro palazzo, magari proprio a noi….Un brano che diventa potente e duro, nella musica e nel testo, una canzone che è un grido di guerra, un inno a non rassegnarsi, il desiderio di chiamare - con il loro nome - i colpevoli dei disastri economici e sociali di questi tempi grigi e con poco futuro a disposizione. Una storia semplice, come direbbe Sciascia, una storia dei nostri giorni, una storia di delusione e di disperazione, una storia che però non spegne la voglia di ribellione e “…io non ci sto, io non mi arrenderò…” canta Finardi, concludendo con un verso che ci riporta alla gloriosa Master of war dell’allora giovane Dylan: “…e aspetterò seduto in riva al fiume fino a che non vi vedrò cadere giù e non tornare più.”
Siamo a metà disco e La storia di Franco si apre con voce e chitarra, proseguendo poi in forma corale, pare proprio essere la continuazione di quanto appena ascoltato nella traccia precedente. Un uomo, separato, che non rivela alla figlia di essere, letteralmente, in mezzo ad una strada, di dormire in macchina, che fa fatica a sbarcare il lunario e che, per non darle dolore, si è inventato di essere andato in Africa con un’associazione umanitaria. Però, non volendo rinunciare a vederla lo fa di nascosto, mentre lei va a scuola. È la vergogna della sua situazione che lo ha fatto scomparire ai suoi occhi, anche se il filo della speranza non è perso perché il desiderio del riscatto è presente ed un giorno è certo che le potrà dire “…Non ero in Africa a sconfiggere la povertà…io ce l'ho fatta a vincere e son riuscito a farlo qua. Avrò il suo rispetto e lei mi ammirerà…”. Una canzone commovente che porta alla ribalta il tema dei padri che, causa separazione, sono costretti ad una vita raminga e spesso anaffettiva. Un tema fortemente sentito da molte persone, che Finardi ha messo in musica ma qualcuno, a livello istituzionale, dovrebbe poter mettere fine a questa ingiustizia che prima di ogni cosa è perdita di dignità personale e sociale.
Le donne piangono in macchina è un altro gioiello che conferma la capacità d’introspezione, nella femminilità che Finardi ha sempre dimostrato di avere. Il testo fa emergere quella dote, tipicamente femminile, di soffrire con sobrietà, non dando mai da vedere fino in fondo le difficoltà che vivono nel cuore, qualunque esse siano. Il suono del pianoforte ed un canto morbido sostengono e rendono manifesto che “ nessuno si accorge di niente e nessuno che sa veramente cosa sentonoperché, nel loro stretto riserbosi portano dentro quel nocciolo di dolore che, anche se freddo, stranamente dà calore, un senso di vuoto giù nel profondo, come se non ricevessero mai abbastanza amore…”. Una canzone malinconica, piena di nebbiosità dello spirito, ma anche ricca di tenerezza e di quella consapevolezza che il mondo è (ancora) troppo maschilista e che le donne sono sempre subalterne a coloro che “costruiscono” (male) la storia di tutti noi, dando quegli imprinting di “insolenza” i cui risultati sono sempre più evidenti e, soprattutto, devastanti.
Fortefragile, (tutto attaccato), è una specie di canto corale nel quale si evidenzia la confusione del protagonista che, in una sorta di schizofrenia dell’animo e dei sentimenti, del proprio amor proprio e dello stato emotivo, manifesta la difficoltà nel sentirsi protagonista di un proficuo rapporto di coppia per giungere alla consapevolezza, senza sbocchi che “Quello che vedi è quel che rimane di me, tolti gli ingombri e i miei momenti, le mareggiate, le nostre litigate, io mi sento così forte e fragile, io mi sento così forte e fragile di fronte a te…”.
Uno schiaffo agli ignavi, a coloro che non si indignano mai è racchiuso in Moderato, penultimo brano del disco, che in alcuni passaggi musicali ricorda un madrigale che cerca di sensibilizzare le persone a porsi domande sul senso della vita, a rendersi consapevoli dell’essere, oggi e qui, protagonisti del passare degli anni, dei propri anni.. È anche questa una forma di denuncia contro coloro che non prendono mai posizione, che sono tiepidi dimenticando le terribili parole nel libro dell’Apocalisse: “Oh, fossi tu o freddo o caldo! Ma siccome sei tiepido io ti vomiterò dalla mia bocca”. Tutto si potrà dire di Finardi tranne d’essere un ‘moderato’ bensì una persona che fin dai suoi esordi (qui a fianco la copertina di uno dei suoi primissimi 45 giri, anno 1973) ha avuto una sua linea di pensiero e di azione che non ha mai cambiato. Semmai sono altri che ieri lo hanno fatto e, pur cambiando posizione, continuano a farlo oggi nell’eterno festival dell’ipocrisia e del pudore mai posseduto.
Arriviamo così all’ultimo brano, Me ne vado, che potremmo definire un articolo di giornale, con Finardi che non fa altro che descrivere come la finanza internazionale, questa sorta di Spectre che tutto controlla e, soprattutto, distrugge, si sia impadronita del mondo (finanziario e di conseguenza della nostra vita tout court) depauperandolo del senso della giustizia. Un concetto che rimbomba nelle parole recitate “Poi sono stati eletti Reagan e la Thacher. Da allora il reddito della gente comune è aumentato solo del 2% mentre il reddito dell'1 per 1000 della popolazione è aumentato del 2600%. Vuol dire che se tu hai 100 euro in tasca, loro ne hanno 260.000 e si stanno mangiando il mondo…”. Più chiaro di così…. Ultima nota che vale la pena segnalare per questo brano, è che da un punto di vista strettamente musicale il finale è un chiaro omaggio al suono degli Area, con una chicca finale, riconoscibilissima, di Patrizio Fariselli (qui nella foto)
Abbiamo lasciato per ultimo Fibrillante, il brano che si trova a metà scaletta e che dà nome all’album. Si apre con un tempo che ricorda i REM, corredato da cori surf. Lo abbiamo lasciato per ultimo perché si tratta della rappresentazione, reale e metaforica, del cambio di uno stato. Che può essere stato d’animo o fisico, ma che comunque si manifesta con un prima e con un dopo nettamente diversi. La fibrillazione atriale di cui Finardi ha sofferto, come da sua “confessione” pubblica in conferenza stampa alla Santeria di Milano dove con la sua formazione al completo ha parlato a lungo e suonato almeno sei o sette brani del nuovo album (qui nella foto Eugenio, con dietro sua nipote Cecilia Salmè al violoncello ), ha rappresentato una sorta di momento di riflessione su un periodo di vita percorso da tempeste tiroidee che ne condizionavano le giornate. Ma anche nel pieno di tali altalene di umori mai è venuta meno la consapevolezza che ogni momento della vita è importante e che dopo ogni tribolazione/fibrillazione c’è del “nuovo”, perché “Ora, sento il futuro che mi attira e la tua elettricità. Ora, io non ho più paura di vivere insieme quello che verrà”. Alla fine del viaggio Eugenio ha ritrovato Finardi ed “insieme” hanno trovato una band di qualità - che è stata parte fondamentale nella composizione delle musiche - con la quale, grazie anche al grande lavoro di produzione del bravo Max Casacci (affiancato da Massimo “Giuvazza” Maggiore), costruire un album d’altri tempi, di quelli come se ne facevano una volta, con una cura maniacale dei suoni e testi pregni di significato, ma capace di parlare di questi tempi. E Finardi ci riesce, con onestà e coerenza. Come da sempre. E scusate se è poco.

Rosario Pantaleo

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