Quel grande scrittore che fu Lester Bangs, recensore eccelso e visionario senza limiti,
probabilmente avrebbe incominciato la recensione del concerto dei Pearl Jam di
ieri sera allo stadio Meazza in questo modo: “Eddie Vedder è un gran bastardo che ha strizzato le palle agli
spettatori di Milano facendogli capire chi era quello che avrebbe menato la
danza…”. In maniera meno trucida oppure meno visionaria che si voglia
immaginare, a me viene da scrivere che senza dubbio quello di ieri sera è stato
un concerto di straordinaria potenza emotiva. Eddie Vedder è senza dubbio il faro dei Pearl Jam ma tutta la band è uno splendore di signori musicisti che
riesce sempre a dare il meglio di sé in quanto si ritengono d’essere più fans
che musicisti, più legati all’ascolto che alla produzione, più vicini agli
spettatori che al music business.
Come noto la band di Seattle ha lanciato una
crociata contro l’alto costo dei biglietti, contro l’industria musicale che
corrompe l’arte, contro tutto ciò che riduce la musica a merce. Il pubblico di
ogni latitudine comprende questa modalità d’essere, questa cifra artistica e
sociale che pervade i musicisti della band dagli esordi. Non sono pose, queste,
bensì l’intima ragione di fare musica di questi straordinari musicisti. Vedere Gossard correre come un ragazzino
intorno la palco mentre lanciava strali con la chitarra opere Ament saltare con il suo basso, davano
l’intensa sensazione che il tempo sia davvero una variabile indipendente
rispetto alla realtà delle cose. Probabilmente Einstein aveva compreso che lo spazio ed il tempo si muovono
coordinandosi tra loro ma poi ci sono delle variabili o errori nel sistema che
fanno impazzire la maionese cosmica. I Perl Jam sono uno di questi errori
mentre l’errore più grande si chiama Bruce Springsteen, ma questa è un’altra storia…Vedder è entrato sul palco dieci alle nove, con
l’aria di un ragazzino uscito dal college per una serata in libertà con gli
amici. Maglietta da basket con il numero 34, aria scarmigliata, bottiglia di
vino in mano, dalla quale trarrà ampie sorsate nel corso della serata e dopo i
saluti di rito ha iniziato a “sparare” la sua voce verso il pubblico, verso il
cielo, verso l’infinito. Da quel momento è stato il delirio, il caos
primordiale, un profluvio di note, l’apocalisse. La band ha macinato suoni in
maniera spettacolare, implacabile, lucida, strepitosa con la sezione ritmica
che sprizzava scintille sonore senza nessuna flessione e le chitarre che
salmodiavano canti e pater noster di rock celestiale, caldo, torrenziale,
bollente. Una eruzione lavica di tonnellate di note lanciate verso il pubblico
che dire fosse in delirio è poco. Delirante ma composto. Pare una
contraddizione di termini ma non è così perché il pubblico dei Pearl Jam è
certamente un pubblico “energico” a cui però la band ed il suo leader hanno
insegnato, come si diceva una volta, solidi principi morali. L’etica dei
comportamenti, quindi, non è assente dall’orizzonte della band di Seattle, come
la sua storia ha dimostrato nel corso dei due decenni e più nei quali hanno
cavalcato il cavallo del rock. Grunge? Punk? Punk Grunge…? Ma che stucchevoli
domande....Questa è musica dei nostri tempi e loro sono figli dei nostri tempi
con l’orecchio teso verso il passato, com’è giusto che sia. E allora è normale,
è logico, giusto, terapeutico direi, che nel quaderno delle loro canzoni ci
siano ombre di REM, immagini dei Led Zeppelin, atmosfere Clash, ombreggiature Younghiane (che vedranno ampia
rappresentatività alla fine del concerto), riverberi Who, simpatie beatlesiane e
rollingstoniane…, rimbalzi alla Deep
Purple ma il tutto condito con il lievito dei tempi dall’inizio sotterraneo
di Seattle ai nostri giorni. Una grande band quella che abbiamo visto ieri sera
al Meazza, che ha ipnotizzato i circa 65 mila spettatori che hanno cantato,
ballato e gioito sulle note delle canzoni dei Pearl Jam. E in tempi grigi,
preoccupanti, schizoidi come questi (leggere che qualcuno uccide moglie e figli
e poi va a vedere la partita con gli amici è qualcosa che supera lo splatter
più cruento…) non è sollievo da poco. Dentro questa musica, questa cultura,
questi desideri, questi suoni si innalza il vessillo del rock autentico e
genuino dei Pearl Jam che da vent’anni cerca di non abbassare la testa di
fronte ad una realtà che cerca di distruggere quello che di positivo pure
esiste. Energia, poesia, sonorità
esplosive, empatia con il pubblico, desiderio di comunità…questo il messaggio
lanciato ieri sera sulla testa e nei cuori delle migliaia di persone radunate
come una tribù intorno al fuoco acceso da Vedder che, in un italiano incerto ma
sentito, ha ricordato del loro primo concerto milanese e di come abbia
conosciuto, quattordici anni fa, sua moglie a Roma ed anche per questo si sente
molto legato all’Italia. Una voce possente, una forza carismatica, un desiderio
di comunicare e di creare legami, una tensione verso pensieri “alti” ed un
disprezzo nei confronti di coloro che si atteggiano a rock star: questo ed
altro rappresenta la figura di Eddie Vedder che ha riconosciuto, al temine del
concerto, la giusta riconoscenza nei confronti di un padre del Grunge, quel Neil Young, padre di molti, omaggiato
con una versione granitica di “Rocking in
the free world” che ha atterrato con un colpo da knock out un pubblico già
in trance. Cosa aggiungere d’altro? Che il pubblico è stato contento? Che tutto
si è svolto in maniera tranquilla e gioiosa? Che la scaletta del concerto si
trova in rete…? Ma no, adesso passo la tastiera allo spirito di Lester Bangs
che senz’altro avrà altro da dire….
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