sabato 21 giugno 2014

I Pearl Jam a Milano: come una costellazione di note scese sulla terra

Quel grande scrittore che fu Lester Bangs, recensore eccelso e visionario senza limiti, probabilmente avrebbe incominciato la recensione del concerto dei Pearl Jam di ieri sera allo stadio Meazza in questo modo: “Eddie Vedder è un gran bastardo che ha strizzato le palle agli spettatori di Milano facendogli capire chi era quello che avrebbe menato la danza…”. In maniera meno trucida oppure meno visionaria che si voglia immaginare, a me viene da scrivere che senza dubbio quello di ieri sera è stato un concerto di straordinaria potenza emotiva. Eddie Vedder è senza dubbio il faro dei Pearl Jam ma tutta la band è uno splendore di signori musicisti che riesce sempre a dare il meglio di sé in quanto si ritengono d’essere più fans che musicisti, più legati all’ascolto che alla produzione, più vicini agli spettatori che al music business.
Come noto la band di Seattle ha lanciato una crociata contro l’alto costo dei biglietti, contro l’industria musicale che corrompe l’arte, contro tutto ciò che riduce la musica a merce. Il pubblico di ogni latitudine comprende questa modalità d’essere, questa cifra artistica e sociale che pervade i musicisti della band dagli esordi. Non sono pose, queste, bensì l’intima ragione di fare musica di questi straordinari musicisti. Vedere Gossard correre come un ragazzino intorno la palco mentre lanciava strali con la chitarra opere Ament saltare con il suo basso, davano l’intensa sensazione che il tempo sia davvero una variabile indipendente rispetto alla realtà delle cose. Probabilmente Einstein aveva compreso che lo spazio ed il tempo si muovono coordinandosi tra loro ma poi ci sono delle variabili o errori nel sistema che fanno impazzire la maionese cosmica. I Perl Jam sono uno di questi errori mentre l’errore più grande si chiama Bruce Springsteen, ma questa  è un’altra storia…Vedder  è entrato sul palco dieci alle nove, con l’aria di un ragazzino uscito dal college per una serata in libertà con gli amici. Maglietta da basket con il numero 34, aria scarmigliata, bottiglia di vino in mano, dalla quale trarrà ampie sorsate nel corso della serata e dopo i saluti di rito ha iniziato a “sparare” la sua voce verso il pubblico, verso il cielo, verso l’infinito. Da quel momento è stato il delirio, il caos primordiale, un profluvio di note, l’apocalisse. La band ha macinato suoni in maniera spettacolare, implacabile, lucida, strepitosa con la sezione ritmica che sprizzava scintille sonore senza nessuna flessione e le chitarre che salmodiavano canti e pater noster di rock celestiale, caldo, torrenziale, bollente. Una eruzione lavica di tonnellate di note lanciate verso il pubblico che dire fosse in delirio è poco. Delirante ma composto. Pare una contraddizione di termini ma non è così perché il pubblico dei Pearl Jam è certamente un pubblico “energico” a cui però la band ed il suo leader hanno insegnato, come si diceva una volta, solidi principi morali. L’etica dei comportamenti, quindi, non è assente dall’orizzonte della band di Seattle, come la sua storia ha dimostrato nel corso dei due decenni e più nei quali hanno cavalcato il cavallo del rock. Grunge? Punk? Punk Grunge…? Ma che stucchevoli domande....Questa è musica dei nostri tempi e loro sono figli dei nostri tempi con l’orecchio teso verso il passato, com’è giusto che sia. E allora è normale, è logico, giusto, terapeutico direi, che nel quaderno delle loro canzoni ci siano ombre di REM, immagini dei Led Zeppelin, atmosfere Clash, ombreggiature Younghiane (che vedranno ampia rappresentatività alla fine del concerto), riverberi Who, simpatie beatlesiane e rollingstoniane…, rimbalzi alla Deep Purple ma il tutto condito con il lievito dei tempi dall’inizio sotterraneo di Seattle ai nostri giorni. Una grande band quella che abbiamo visto ieri sera al Meazza, che ha ipnotizzato i circa 65 mila spettatori che hanno cantato, ballato e gioito sulle note delle canzoni dei Pearl Jam. E in tempi grigi, preoccupanti, schizoidi come questi (leggere che qualcuno uccide moglie e figli e poi va a vedere la partita con gli amici è qualcosa che supera lo splatter più cruento…) non è sollievo da poco. Dentro questa musica, questa cultura, questi desideri, questi suoni si innalza il vessillo del rock autentico e genuino dei Pearl Jam che da vent’anni cerca di non abbassare la testa di fronte ad una realtà che cerca di distruggere quello che di positivo pure esiste.  Energia, poesia, sonorità esplosive, empatia con il pubblico, desiderio di comunità…questo il messaggio lanciato ieri sera sulla testa e nei cuori delle migliaia di persone radunate come una tribù intorno al fuoco acceso da Vedder che, in un italiano incerto ma sentito, ha ricordato del loro primo concerto milanese e di come abbia conosciuto, quattordici anni fa, sua moglie a Roma ed anche per questo si sente molto legato all’Italia. Una voce possente, una forza carismatica, un desiderio di comunicare e di creare legami, una tensione verso pensieri “alti” ed un disprezzo nei confronti di coloro che si atteggiano a rock star: questo ed altro rappresenta la figura di Eddie Vedder che ha riconosciuto, al temine del concerto, la giusta riconoscenza nei confronti di un padre del Grunge, quel Neil Young, padre di molti, omaggiato con una versione granitica di “Rocking in the free world” che ha atterrato con un colpo da knock out un pubblico già in trance. Cosa aggiungere d’altro? Che il pubblico è stato contento? Che tutto si è svolto in maniera tranquilla e gioiosa? Che la scaletta del concerto si trova in rete…? Ma no, adesso passo la tastiera allo spirito di Lester Bangs che senz’altro avrà altro da dire….


“Quegli schermi, che hai miei tempi neppure si immaginavano, che riportavano sui loro milioni di pixel le corde delle chitarre agitate e scarnificate dalle note, mi arrivavano addosso con lo spirito sano e contraddittorio degli anni ’60, con il loro bianco e nero un po’ demodè e ricco di sfumature tanto che quando si è passati al colore neppure me ne ero accorto. Mi guardo intorno e vedo birre a gogò. Vorrei sputare nei bicchieri e litigare con tutti quelli che anziché ascoltare quei suoni mostruosi e celestiali al contempo perdono tempo a gonfiare stomaci. E non venite a dirmi che anche Vedder si è attaccato ad una bottiglia di vino. Lui quel vino lo usa per cantare. A voi la birra al massimo serve per pisciare. E la differenza, credo, è estrema ed evidente. Eddie, perdonali e non amareggiarti “stanno solo sanguinando” nell’anima e, purtroppo, nemmeno ne hanno consapevolezza…”.

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