lunedì 16 giugno 2014

Quando l’uomo della tempesta bussò dal cielo ma la musica non lo fece entrare…

Si devono arrendere gli eventuali detrattori/sabotatori di Davide Van De Sfroos perché anche ieri sera, all’Ippodromo del galoppo di Milano, migliaia di persone hanno cantato, ballato, applaudito, sorriso, pensato, pianto. Si sono perse in una mare di malinconia e di allegria, hanno compreso, ancora una volta, come le canzoni di questo folletto del lago di Como siano metafore che parlano a ciascuno di loro. La carriera di Van De Sfroos si è basata sulle sue canzoni e sul rapporto con i suoi estimatori fatto di uno zoccolo duro di fans, oggi con i capelli brizzolati o bianchi, e di tanti giovani che ne hanno conosciuto le canzoni nelle maniere più disparate.

Van De Sfroos parla a tutti, non ha appartenenze generazionali di sorta, perché onnivoro qual è di cultura, di musica, di storia, del vivere, è in grado di farsi capire da ogni generazione. Meglio ancora, è in grado di capire persone ed eventi in maniera davvero speciale ed esclusiva. Perché la sua capacità di cogliere, da quello che gira intorno, gli spunti per costruire una canzone è davvero unico ed oggi, nel panorama discografico italiano, unico. Così come unica è la sua capacità di rischiare e cambiare temi e situazioni nelle sue canzoni infischiandosene dei giudizi dei critici e, pur rispettandoli, la sua carriera artistica si muove su strade che lui ha deciso di percorrere. 

Oggi, con la crisi del settore musicale e discografico sarebbe facile compiacere un pubblico più “facile” agli abbagli ma Van De Sfroos non è né uomo né artista di svendita al mercato. Quanto sarebbe facile scrivere canzoni in lingua italiana per vendere più dischi, come sarebbe più facile scrivere semplici ed orecchiabili canzoni d’amore e, come canta Guccini, “a culo tutto il resto”. Invece lui no, insiste con il suo dialetto lagheè, con le sue storie memorabili di “Yanez” nostrani e Cimino dentro il lago, di infermiere e re del giardino…e di tanti altri personaggi, probabili o meno, che popolano le storie delle sue canzoni, che fanno parte di un “mondo piccolo” che, grazie a lui, diventa un mondo immenso, infinito, inarrivabile e che rende anche i signori “nessuno”, per una volta nella vita, almeno, “un” qualcuno. Anche ieri sera, sopra un palco immenso e circondato dalla sua band come fosse una sorta di coperta protettiva verso l’imminente tempesta (che poi non c’è stata), Van De Sfroos ha dimostrato d’essere una spanna sopra molti dei suoi colleghi più blasonati non per meriti artistici ma per presenzialismo televisivo di cui, quasi sempre, non se ne comprende la ragione. Vogliamo tutti bene, per esempio, ad Albano e rispettiamo la sua lunga carriera, ma vederlo (insieme a tanti altri suoi datati colleghi, presente in TV in maniera intensiva e non vedere mai un fenomeno concreto e surreale, al contempo, come Van De Sfroos, significa che l’arte e la cultura del nostro Paese sono cristallizzate senza possibilità alcuna di crescita. E chi, come chi scrive, ha vissuto in pieno l’impeto “liberatorio” della fine degli anni ’60 che si è protratta fino alla metà degli anni ’70 (che vedeva nella musica una dei grimaldelli più importanti e decisivi per scardinare le vecchie consuetudini) deve constatare che un video autoprodotto e visionario come “Goga e Magoga” non riesce a farsi vedere nelle TV, commerciali o meno che siano. E dei programmi musicali che un tempo anche la RAI produce non ne vediamo più neppure l’ombra. 

Eppure “Goga e Magoga” vende, cammina, si fa ascoltare, è presente nelle playlist di tenti. Ed il concerto di ieri sera ha dimostrato in termini numeri ed artistici che Van De Sfroos c’è, che Van De Sfroos è una realtà, che Van De Sfroos è “oltre” dal punto di vista della scrittura musicale. “Io conosco solo quattro accordi” ha detto mercoledì sera durante la chiacchierata allo Spazio Teatro 89 di Milano. Se fosse vero significa che in questo suo limitato sapere della notazione musicale è nascosto un mondo enorme, infinito, impossibile da contenere. Se questa affermazione pare apparire come una iperbole la possibilità di smentirla è immediata: si prendono i suoi testi e si ascoltano i brani prodotti. Quello che emergerà è una serie di mondi di infinita bellezza ed inarrivabile passione e compassione, nostalgia ed allegria, gioia e dolore, solitudine e comunità. Spesso, nell’ascoltare le sue canzoni, si è come aggrediti da sensazioni che arrivano a scavare nel profondo di ciascuno. A volte non se ne comprendono le ragioni ma, come per magia, ciò accade e se ne è trasformati in maniera indelebile. Ed anche nel concerto di ieri sera, aperto dal video di “Goga e Magoga”, a cui ha fatto seguito una inaspettata “Yanez”, è stato possibile calarsi nel mondo di Van De Sfroos. No, meglio, è stato possibile andare a scavare dentro noi stessi scoprendo che tra la storia solitaria e nostalgica di “Yanez” e la conclusione allegra e “compagnona” de “La curiera” ci sono stati tanti stati d’animo diverse, tante storie uguali alle nostre storie, tanti momenti di festa e commozione, di ricordo e tensione verso il futuro. Ventidue brani quelli interpretati ieri sera per due ore di concerto a combattere contro “l’uomo della tempesta” che ha più volte bussato dalle porte del cielo ma che la musica di Van De Sfroos ha ricacciato indietro. Perché chi governa le canzoni, se vuole, può anche governare il tempo…

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