Si devono arrendere gli eventuali detrattori/sabotatori di
Davide Van De Sfroos perché anche ieri sera, all’Ippodromo del galoppo di
Milano, migliaia di persone hanno cantato, ballato, applaudito, sorriso,
pensato, pianto. Si sono perse in una mare di malinconia e di allegria, hanno
compreso, ancora una volta, come le canzoni di questo folletto del lago di Como
siano metafore che parlano a ciascuno di loro. La carriera di Van De Sfroos si
è basata sulle sue canzoni e sul rapporto con i suoi estimatori fatto di uno
zoccolo duro di fans, oggi con i capelli brizzolati o bianchi, e di tanti
giovani che ne hanno conosciuto le canzoni nelle maniere più disparate.
Van De
Sfroos parla a tutti, non ha appartenenze generazionali di sorta, perché
onnivoro qual è di cultura, di musica, di storia, del vivere, è in grado di
farsi capire da ogni generazione. Meglio ancora, è in grado di capire persone
ed eventi in maniera davvero speciale ed esclusiva. Perché la sua capacità di
cogliere, da quello che gira intorno, gli spunti per costruire una canzone è
davvero unico ed oggi, nel panorama discografico italiano, unico. Così come
unica è la sua capacità di rischiare e cambiare temi e situazioni nelle sue
canzoni infischiandosene dei giudizi dei critici e, pur rispettandoli, la sua
carriera artistica si muove su strade che lui ha deciso di percorrere.
Oggi,
con la crisi del settore musicale e discografico sarebbe facile compiacere un
pubblico più “facile” agli abbagli ma Van De Sfroos non è né uomo né artista di
svendita al mercato. Quanto sarebbe facile scrivere canzoni in lingua italiana per
vendere più dischi, come sarebbe più facile scrivere semplici ed orecchiabili
canzoni d’amore e, come canta Guccini, “a culo tutto il resto”. Invece lui no,
insiste con il suo dialetto lagheè, con le sue storie memorabili di “Yanez”
nostrani e Cimino dentro il lago, di infermiere e re del giardino…e di tanti
altri personaggi, probabili o meno, che popolano le storie delle sue canzoni,
che fanno parte di un “mondo piccolo” che, grazie a lui, diventa un mondo
immenso, infinito, inarrivabile e che rende anche i signori “nessuno”, per una
volta nella vita, almeno, “un” qualcuno. Anche ieri sera, sopra un palco
immenso e circondato dalla sua band come fosse una sorta di coperta protettiva
verso l’imminente tempesta (che poi non c’è stata), Van De Sfroos ha dimostrato
d’essere una spanna sopra molti dei suoi colleghi più blasonati non per meriti
artistici ma per presenzialismo televisivo di cui, quasi sempre, non se ne
comprende la ragione. Vogliamo tutti bene, per esempio, ad Albano e rispettiamo
la sua lunga carriera, ma vederlo (insieme a tanti altri suoi datati colleghi,
presente in TV in maniera intensiva e non vedere mai un fenomeno concreto e
surreale, al contempo, come Van De Sfroos, significa che l’arte e la cultura
del nostro Paese sono cristallizzate senza possibilità alcuna di crescita. E
chi, come chi scrive, ha vissuto in pieno l’impeto “liberatorio” della fine
degli anni ’60 che si è protratta fino alla metà degli anni ’70 (che vedeva
nella musica una dei grimaldelli più importanti e decisivi per scardinare le vecchie
consuetudini) deve constatare che un video autoprodotto e visionario come “Goga
e Magoga” non riesce a farsi vedere nelle TV, commerciali o meno che siano. E
dei programmi musicali che un tempo anche la RAI produce non ne vediamo più
neppure l’ombra.
Eppure “Goga e Magoga” vende, cammina, si fa ascoltare, è
presente nelle playlist di tenti. Ed il concerto di ieri sera ha dimostrato in
termini numeri ed artistici che Van De Sfroos c’è, che Van De Sfroos è una
realtà, che Van De Sfroos è “oltre” dal punto di vista della scrittura
musicale. “Io conosco solo quattro accordi” ha detto mercoledì sera durante la
chiacchierata allo Spazio Teatro 89 di Milano. Se fosse vero significa che in
questo suo limitato sapere della notazione musicale è nascosto un mondo enorme,
infinito, impossibile da contenere. Se questa affermazione pare apparire come
una iperbole la possibilità di smentirla è immediata: si prendono i suoi testi
e si ascoltano i brani prodotti. Quello che emergerà è una serie di mondi di
infinita bellezza ed inarrivabile passione e compassione, nostalgia ed
allegria, gioia e dolore, solitudine e comunità. Spesso, nell’ascoltare le sue
canzoni, si è come aggrediti da sensazioni che arrivano a scavare nel profondo
di ciascuno. A volte non se ne comprendono le ragioni ma, come per magia, ciò
accade e se ne è trasformati in maniera indelebile. Ed anche nel concerto di
ieri sera, aperto dal video di “Goga e Magoga”, a cui ha fatto seguito una
inaspettata “Yanez”, è stato possibile calarsi nel mondo di Van De Sfroos. No,
meglio, è stato possibile andare a scavare dentro noi stessi scoprendo che tra
la storia solitaria e nostalgica di “Yanez” e la conclusione allegra e
“compagnona” de “La curiera” ci sono stati tanti stati d’animo diverse, tante
storie uguali alle nostre storie, tanti momenti di festa e commozione, di
ricordo e tensione verso il futuro. Ventidue brani quelli interpretati ieri
sera per due ore di concerto a combattere contro “l’uomo della tempesta” che ha
più volte bussato dalle porte del cielo ma che la musica di Van De Sfroos ha
ricacciato indietro. Perché chi governa le canzoni, se vuole, può anche
governare il tempo…
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