Sono passati ormai quasi quarant’anni dall’inizio del
fenomeno punk. Un fenomeno durato l o spazio di un mattino. La data in cui
tutto iniziò fu il concerto dei Ramones
a Londra. Era il 4 agosto del 1976 e da quel momento le ceneri sotto le quali
bruciava la sacra fiamma del rock primordiale, messo in disparte dal rock
progressivo, dalla potenza sonora di Yes, King Crimson, Genesis e di tutto quel
mondo che si riconosceva nelle atmosfere della musica “spaziale” Pink Floyd, Tangerine
Dream, Can, Caravan Soft Machine e via dicendo. Il punk fu il bisogno di tornare
al punto zero, di ricominciare a parlare un linguaggio musicalemtne semplice ma
con i testi grezzi e taglienti.
Da quel magma primordiale il rock si rigenerò e
produsse i Clash, Televison, Patti Smith e tanti altri artisti che ebbero la
possibilità di esprimersi in maniera diretta ed efficace, pur senza avere
particolari doti tecniche. Il punk fu anche un momento di rottura con il
vecchio mondo fatto di lustrini e paillettes che il glam rock, che si appaiò al
periodo del rock progressivo, stava distribuendo a larghe mani. One, two, three,
four…e poi via sparare note dal palco. Una lezione, questa, che con altri
linguaggi ancora oggi un irrequieto diavolo del New Jersey sta predicando dai
palchi di tutto il mondo. Gabba Gabba hey..!
E sono passati anche ben 43 anni dal concerto per il Bangla
Desh, prototipo di tutti i concerti benefici che da lì in avanti avrebbero
fatto capolino nel mondo del rock. Era il 1à agosto del 1971 e dal Madison
Square Garden di New York si levarono le note di un concerto che fu definito
straordinario e che lasciò a bocca aperta tutti gli appassionati di musica.
Nato grazie ad un’idea di Ravi Shankar, amico di George Harrison e straordinario
musicista e suonatore di sitar, che chiese di organizzare un grande concerto i
cui proventi andassero alle vittime di una spaventosa alluvione occorsa in
Bangla Desh. Harrison raccolse l’invito ed alcuni illustri colleghi lo
seguirono sul palco. Tra i tanti ricordiamo Ringo Starr, Eric Clapton, Billy
Presto, Leon Russel, la band dei Badfinger, Jimmi Keltner e, buon ultimo, Bob
Dylan, in forse fino all’ultimo momento. Un concerto forse tecnicamente imperfetto
ma con un pathos ed una voglia di essere utili a qualcuno, per qualcosa. Fu il
primo di una lunga serie. Rimane il ricordo lontano di un articolo del Corriere
della sera e due pagine del mitico Ciao 2001. E qualche mese dopo un triplo LP
a certificare che quel concerto si era davvero tenuto in quel di New York. Già,
perché Internet, allora, era nascosto nelle viscere di qualche montagna americana,
ben custodito dai servizi segreti U.S.A.
E siamo anche a sessant’anni dall’uscita di un film cult: “Fronte del porto”
con un Fred Zinneman impegnato a ricostruirsi una reputazione dopo le delazioni
contro presunti colleghi comunisti nel grande calderone del periodo ricordato
come “maccartismo”, dove il senatore U.S.A. George Mc Carthy riempì la nazione
di livore ed odio contro coloro che non si volevano allineare al pensiero unico
del sogno americano. Zinnemann era un signor regista e seppe riscattarsi con un
film in cui, in controluce, vi era proprio narrata la sua vicenda e quella che
aveva coinvolto tanti artisti. “Fronte del porto” fu una metafora grandiosa,
con una narrazione estremamente ricca, una fotografia ispirata, attori
indimenticabili quali Marlon Brando, Eve Marie Saint, Karl Malden, Rod Steiger.
Un film, questo, da cineteca, capace di raccontare, bene, una storia d’amore,
una storia di conflitti, una storia di coraggio e di codardia, una storia che
non è ancora terminata e i cui protagonisti continuano a vivere attraverso i
fotogrammi di un tempo lontano. Dopo una guerra piena di lutti e prima di altre
guerre con altri lutti. Dopo Woody Guthrie che la seconda guerra mondiale l’aveva
combattuta e prima di Dylan, che racconterà quel mondo con liriche e note senza
tempo…
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