Gaetano Liguori
Confesso che ho suonato
‘Confesso che ho suonato’
è il titolo di un libro che si legge tutto d’un fiato, innanzitutto
perché è scritto bene, poi perché racconta la vita di un grande
musicista qual è Gaetano Liguori. Una storia, però, che non si
limita al fatto musicale ma racconta la storia di una città come Milano,
la storia di un periodo straordinario. Bello ed anche brutto, comunque
unico ed irripetibile.
Liguori
è figlio d’arte in quanto suo padre, Lino, è stato un grande batterista
che aveva lo swing nel sangue e nella sua famiglia altri due zii sono
stati provetti batteristi e uno di questi era l’indimenticato Gegè Di Giacomo (scomparso nel 2005 ad 87 anni), batterista storico del gruppo di Renato Carosone. Provenendo da questi “genia” il destino del giovane Liguori era segnato.
Il
libro racconta, così, delle gesta scolastiche poco entusiasmanti che
però diventano eccellenza nel momento in cui “il discolo” varca le porte
del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. Da quel momento la
vita del giovane Gaetano diventa quella del musicista Liguori,
innamorato del jazz, in particolare di quello duro, il free jazz, che
negli anni iniziali faceva storcere il naso ai puristi del jazz
classico. Ma insieme ad un gruppo di fanatici appassionati di musica la
storia della vita di questo artista prende strade davvero inattese.
È
il tempo della contestazione, ma anche del’applicazione seria al
proprio strumento. È il tempo dei sogni di un mondo diverso ma, insieme,
la forza di volontà d’essere testimone di questi tempi e delle
trasformazioni invocate. Ed anche l’arte, anche il jazz, può diventare
elemento di trasformazione. Innanzitutto di se stessi, del modo di
concepire i rapporti tra le persone, nella generosità elargita a piene
mani in centinaia di concerti gratuiti e per una causa (l’ultimo per
l’organo della chiesa vecchia di Baggio).
Nelle pagine di questo bel libro scorre la Milano che parte dagli anni
’50 ed arriva ai giorni nostri, scorrono le immagini di un Paese che non
ha saputo trovare una senso ed una
dignità
ma che nei suoi cittadini migliori trova ancora una motivazione per
andare avanti e non cedere al pessimismo ed al facile scoramento.
Colpiscono le pagine in cui è la musica a parlare, dal primo disco
inciso con la PDU, quel Cile libero, Cile rosso
(recentemente ristampato) che fu un pugno nello stomaco per il jazz
italiano. Lo era per quella sua capacità d’essere melodico e free nel
contempo, svelando così la grande capacità di mediazione artistica ma
anche di duttilità musicale che quel giovane studente del Conservatorio
portava con sé.
E
in parallelo ai racconti musicali, leggendo il libro si viene
accompagnati anche nei tanti viaggi internazionalisti, e non solo,
vissuti da Liguori: Nicaragua, Eritrea, Tailandia, Libano e molti altri
ed in ciascuno di questi viaggi è sempre emersa la voglia di suonare per
emancipare, suonare per fare riflettere, suonare per rendere
consapevoli. Mai concerti fini a se stessi, piuttosto momenti di
incontro e relazione con gli ascoltatori, utilizzando l’arte e la
perizia musicale come medium per vincere ogni barriera. ‘Confesso che ho suonato’
non è un libro ampolloso, elegiaco, celebrativo: tutt’altro. È un libro
che vuole raccontare con grande semplicità ed onestà intellettuale la
storia, ad oggi, di un ragazzo “del Corvetto” giunto da Napoli nel 1957 e
che ha visto Milano crescere e svilupparsi nel corso degli anni. Un
ragazzo che ha vissuto in periferia e che ha avuto sempre la voglia di
sentirsi milanese, seppure di adozione, ma che attraverso la musica ha
fatto conoscere una delle tante abilità di cui sono capaci gli italiani
quando si ricordano di essere eredi di una storia artistica e musicale
immensa.
Uomo di parte, ma anche capace di porsi le domande giuste sul senso della vita, Gaetano Liguori nel 2013 è stato insignito dell’”Ambrogino d’Oro”, onorificenza del Comune di Milano che premia i suoi “figli” migliori. E confessando d’aver suonato
Liguori, professore da oltre trent’anni in quel Conservatorio “Giuseppe
Verdi” che varcò ragazzino, non si dimentica di chiudere il suo
racconto di vita con l’immancabile “Hasta la victoria siempre!” che non
rappresenta un retaggio di anni ormai lontani ma la continua richiesta
di mantenere in vita un sogno che, forse, solo la musica può soddisfare.
Rosario Pantaleo
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