Diciamo la
verità, se non si chiamasse Bob Dylan saremmo tentati di dire che l’autore di
“Shadows in the night” è una sorta di imbonitore che cerca di rifilarci il suo
prodotto. Tra l’altro in confezione che più scarna non si può, senza concederci
nemmeno il “calore” del cartonato digipack. No, il tutto nel freddo crystal box
con un foglio, dicesi uno, a fare da copertina e, nel retro, ad illustrare i
nomi dei musicisti coinvolti e con la scaletta dei dieci brani proposti. Anche
in queste cose Dylan rimane un mistero. Andando oltre, se un giorno qualcuno ci
avesse raccontato che Dylan avrebbe cantato le canzoni di Frank Sinatra, ne
avremmo chiesto l’internamento immediato.
Ma come, il cantore della protesta,
il sobillatore del rock, il destrutturatore delle proprie canzoni avrebbe
potuto affrontare un monumento antico ed opposto al suo mondo come quello
rappresentato da The Voice? Impresa improbabile, al limite del suicidio. Il
“senza voce” contro “la voce”? Una proposta come questa sarebbe stata
considerata una sorta di “diceria dell’untore”, delle improbabili follie ed
avremmo cambiato canale. Ma poi, qualche anno fa, arrivò nei negozi un album di
canzoni natalizie, che Dylan interpretò come se avesse la segatura sulle corde
vocali.
Ma, vivaddio, si poteva accettare anche quel disagio! In fondo si
trattava di un’opera benefica in favore degli homeless americani. Ma quando
abbiamo letto del repertorio di cui si sarebbe avvalso il nuovo album, abbiamo
davvero creduto che Bob Dylan avesse ceduto alla follia dell’età e di fronte a
questa situazione ogni critica sarebbe stata ingenerosa. Si sa, con l’età, tutto
è più incerto e confuso. Poi abbiamo acquistato l’album, e lo abbiamo inserito
nel lettore e da quel momento è stato difficile distogliere l’attenzione da
quei suoni, da quelle musiche, da quel canto. Rimane chiaro un concetto. Non è
un album da inscrivere in qualche preciso filone della sua discografia, perché
è un disco, unico, forse incomprensibile ma, anche, incomparabile.
Probabilemente è l’album della vita, e non perché sia il più bello, ma
piuttosto perché stato pensato, suonato e cantato sull’uscio del crepuscolo,
magari quello prima dello Shabbat, ed ogni nota e lirica appare come una sorta
di epitaffio. Non pensate, dunque, che questo sia il suo canto del cigno,
perché non si fermerà mai e continuerà a cantare e suonare in ogni istante che
avrà ancora di fronte a sé. Questa è la sorte che gli è stata assegnata chissà
in quale riunione degli Dei o dei Profeti della Bibbia. Semplicemente, Bob
Dylan sta chiudendo un’epoca; quell’epoca iniziata più o meno quando ebbe i
natali nel ventoso nord (1941) mentre Sinatra nel 1939 incideva la sua prima
canzone e nel 1940 iniziava a collaborare con l’orchestra di Tommy Dorsey. Poi
arrivarono gli anni bui della guerra e l’America cambiò lo sguardo sul mondo.
Da isolazionista divenne una nazione interventista, sempre e comunque, come
anche noi abbiamo modo di osservare, dissentire e comprendere. Sinatra, in
quegli anni, divenne “The Voice” e chissà quante volte la sua voce sarà entrata
in casa Zimmermann ad allietare le serate dei propri genitori, magari attraverso
delle poderose radio RCA Victor o Westinghouse. Sinatra, così lontano dalle
radici dylaniane, è stato il primo artista che, a parte Rodolfo Valentino, ha
incarnato il mito del cantante, del musicista che si fa divo e che crea
“scompiglio” nel mondo musicale, nella società dei suoi tempi. Poi sarebbe
toccato ad Elvis, inviso a Sinatra. Poi ai Beatles che, nonostante le
apparenze, erano antipatici ad Elvis. Il tutto in una sorta di sequenza
inevitabile perché come guidata da forze superiori. Ed oggi Dylan torna
indietro nel tempo e pare volerci riproporre una puntata del suo programma
radiofonico di qualche anno fa, “Theme Time Radio Hour”, solo che invece di
mandare in onda il Sinatra originale ha deciso di interpretarlo attraverso il
filtro della sua voce e della sua band.
Alla fine l’obbiettivo è raggiunto
perché Dylan canta da bravo performer, non mangia ma scandisce le parole, le
segue, le lucida, le accarezza, le fa avvolgere dalle trame sonore intessute
dai suoi musicisti in maniera impeccabile e professionale. Per questo motivo
“Shadow In The Night” è un disco fuori dal tempo, che scorre rapido ma anche in
modo lento e solenne, che inebria ad un ascolto, che annoia ad un altro, che ti
confonde in un caso, mentre in un altro apre la mente a ricordi, atmosfere,
momenti di vita ritenuti scomparsi. Questo non è un disco bello, e forse non è
nemmeno un disco, ma un passaggio spazio-temporale che ci consegna attimi di
passato capaci di toglierci il fiato, di frastornarci, di commuoverci, ed
impaurirci. L’ascolto in cuffia è consigliato perché estraniandosi da quello
che ci circonda è possibile transitare in una dimensione diversa, magari
conosciuta grazie al cinema o ai documentari, ma rimossa dal nostro quotidiano.
Quella dimensione si chiama passato e nei 35 minuti dell’album questa
dimensione arriva per chiudere il cerchio con la storia che abbiamo intravisto
anche noi, nella nostra porzione di esistenza. I musicisti assecondano Dylan in
ogni passaggio, e tutto è costruito con misura e senza sbavature grazie al
lavoro alla pedal steel di Danny Herron, primaria voce strumentale dell’album,
supportata dal basso di Tony Garnier, dalle chitarre di Charlie Sexton e Stu
Kimball, e dalle lievissime percussioni di George Receli. A loro si unisce una
line up di ottoni, in tre brani dell’album, la cui presenza è di una levità
assoluta, e non invade il campo del canto di Dylan. Da ultimo, la voce di
Dylan, della cui qualità e pulizia abbiamo detto, che si comporta come fosse
una sorta di voce narrante più che quella di un cantante.
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