venerdì 10 aprile 2015

Il ritorno di Joan Baez a Milano. Forse l'ultima...

L’attesa è durata nove anni, dall’aprile del 2006, ed il pubblico del Teatro degli Arcimboldi di Milano lo dimostrava con una certa impazienza. L’età media, ovviamente, era molto alta, almeno cinquant’anni, ma l’età non era così importante perché era il passato, il presente, il futuro quello presente sul palco. Alle ore 21.20 Joan Baez è apparsa sul palco con la sua solita grazia, levità e sorriso ed il pubblico si è sciolto in una applauso liberatorio. E dopo un bel sorriso la chitarra acustica ha iniziato a fare scorrere le note di God is God, canzone scritta da Steve Earle. Canzone fiera e della memoria.
Il canto è morbido e la chitarra viene arpeggiata con dolcezza. Il pubblico è in religioso silenzio quasi volesse accompagnare la voce della Baez avendo come paura che potesse spezzarsi. Ma non si spezza e gli applausi danno la giusta gratificazione alla canzone. Un boato accoglie l’intro di Farewell, Angelina, una canzone che h saputo resistere al tempo e con il tempo combatte e non invecchia. E’ una sorta di walzer del tempo immobile, è come se il mondo intero venisse raccolto in una canzone. La melodia è arcinota, ovviamente, ma a nessuno verrebbe in mente di dire che, forse, sarebbe meglio una canzone meno nota. La follia non è seduta sulle poltrone del teatro milanese…

Dopo la figura di Bob Dylan arrivano le ombre di Phil Ochs, con la Baez che presenta, con l’arpeggio introduttivo, le note di There but for fortune, una canzone che riesce anch’essa a non invecchiare sia per la sua eterna giovinezza di ballata popolare sia per le sue liriche purtroppo ancora attuali a cinquant’anni dalla sua pubblicazione. Le note alte sono ormai imprendibili ma la grande cognizione della tecnica di canto che la Baez possiede le permettono di presentare la canzone con la medesima dolcezza di mille altre serate ed incisioni. Al termine della canzone entrano sul palco Gabriel Harris (suo figlio) alle percussioni e Dirk Powell, polistrumentista. Il suono del banjo e delle percussioni accompagnano la voce di velluto fine di una ballata piena di garbo e di visioni qual è Lily of the West. Ballata di fine ottocento, di origine irlandese, cantata da miriadi di artisti tra i quali, ovviamente, Bob Dylan. E’ una splendida ballata cantata e suonata con una grande classe e professionalità. Ancora in trio per una bella versione di It’s all over now, baby blue, dove la voce appare come fosse una sorta di pennello di un pensiero superiore capace di dipingere i sentimenti affettivi e relazionali di una grande storia d’amore. Questa è un’altra canzone senza tempo piena di amore, gioia e dolore insieme. Una canzone che ha al suo interno un calor bianco di intensità così potente che dopo cinquant’anni non accenna a diminuire nella sua capacità di stupire e di emozionare. Il mandolino di Powell accompagna la voce della Baez nella canzone Mi verganza personal (La mia vendetta personale), di Luis Enrique Mejia Godoy, un cantautore nicaraguense e sandinista che racconta di come la migliore vendetta nei confronti della dittatura somozista sia quella dell’alfabetizzazione, dell’istruzione, perché solo emergendo dall’ignoranza è possibile iniziare a riacquistare dignità e diritti. La voce è splendida, sommessa, perfetta nel suo spagnolo, sua lingua madre. 

Anticipata da una dedica ai No Tav, che lottano per la salvezza della Val Di Susa dalla scelta di fare passare da quelle montagne il treno ad alta velocità, arrivano le note di un altro classico del canzoniere dell’artista statunitense. Si tratta di Joe Hill, canzone storica che ricorda la vita e le opere di un sindacalista americano, di origine svedese, che venne ingiustamente accusato di omicidio e, per questa ragione, fucilato. Da sempre presente nelle sue performances la si ricorda, anche, cantata dal palco di Woodstock. Il bandeon suonato da Powell rende l’atmosfera meno carica di tensione e più “leggera” dal punto di vista. Un mondo d’amore è l’omaggio alla platea che batte il tempo e canta insieme a lei. Il suono sincopato del basso acustico accompagna il ritmo della canzone e la voce della Baez. E’ solo un immagine, ma ci si sente catturati dalle immagini degli anni ’60 e dai 45 giri che inondavano di note e di allegria le case degli italiani del boom economico. Pianoforte e voce aprono una bella versione di Jerusalem, una canzone memorabile che la Baez canta in maniera sontuosa, con la capacità di creare un’atmosfera di grande attenzione e profondità. Una melodia struggente raggiunta e mantenuta grazie ad una vocalità commovente che sa di antico e, nel contempo, che guarda al futuro, capace di non perdere nemmeno un istante di tensione e, nel contempo, capace di trasferire una forte emozione a tutto il pubblico. Il pianoforte è padrone della melodia e dimostra la capacità di Powell di supportare, in maniera professionale, la forza evocativa della voce della Baez. In Just the way you are, grande ballata scritta da Billy Joel, la Baez viene “assistita” dalla sua assistente, tal Grace Stamberg che, a dispetto della sua altezza certamente di non particolare taglia, riesce a dare un sostegno vocale alla Baez. 

La bellissima melodia di questa canzone si spande all’interno del teatro e le sue note attraversano lo spazio ed il tempo riducendo la distanza tra il presente ed il passato. L’atmosfera che si respira è di grande rilassatezza e questo hit di fine anni ’70 riesce ancora a smuovere passioni ed emozioni. Le note di Diamond and rust sono, insieme alle note stillate dalla chitarra solo della Baez, una sorta di balsamo per ogni malinconia. Una straordinaria canzone che richiama alla storia d’amore con Dylan e, con oltre un decennio di ritardo, è da interpretarsi come una sorta di risposta alla sua It’s all over now, baby blue. La chitarra e la voce sembra vogliano piangere per un amore perduto ma senza la drammaticità di una storia finita in tragedia. La voce è piena calda, profonda, diretta. La Baez dà forse il meglio di sé in questa canzone, forte e tesa ma, al contempo, con lo sguardo verso l’orizzonte del futuro che attende. Gli applausi sembrano non voler smettere di risuonare nel teatro ed è subito il momento di Swing low, sweet chariot, uno spiritual che ha fatto parte del repertorio della Baez fin dagli esordi. La canzone venne scritta da Wallis Willis, alla metà degli anni ’60 dell’ottocento e venne poi incisa agli inizi degli anni ’10 del novecento. Voce piena, accompagnata dalla chitarra, che rende forte ed intensa la performance. I successivi brani sembrano volere volgere lo sguardo verso il mondo ebraico e quello musulmano. E’ in fatti il momento di Dona, dona e di Jaria hamounda, che sembrano le facce di una medesima medaglia. Influenzata dalla diaspora la prima, intrisa di deserto ed orizzonti sabbiosi, la seconda. Canzone melodiosa e struggente la prima, percussiva e ritmica, la seconda. Seven curses è nuovamente Dylan che irrompe sulla scena con l’incedere di un murder ballad. Donne, uomini, giudici, impiccati. Il classico mix di ingredienti che danno vita alle tragedie, come infatti la storia racconta e come le percussioni fanno risaltare. 

Un vecchio brano di John Fahey, Give me  cornbread when I’m hungry arriva a sparigliare le carte di un concerto che si immaginava conoscere a memoria. Banjo e percussioni a dettare i tempi per creare le condizioni di una canzone popolare con balletto finale tra la Baez ed il bravo Powell. Fanno appena in tempo a placarsi gli applausi che partono le note della vecchia ballata The house of the rising sun, proposta da innumerevoli artisti (Dylan incluso agli albori della sua carriera) con la versione degli Animals fissa nella memoria. La voce è mirabile ed assolutamente dentro il brano. Quello che viene a crearsi è un clima di grande tensione ed emozione e la canzone apre orizzonti alla fantasia che si lascia ammaliare dalla voce e dall’atmosfera in cui la voce della Baez e le immagini che scaturiscono dalla sua voce, lasciano scaturire. Il seguito del brano è Long black veil quindi il knock out è assicurato. La canzone, conosciuta soprattutto per la versione sontuosa di Johnny Cash, è un’altra murder ballad e ricalca la sua origine country con il violino d Powell a dettare la melodia mentre la voce della Baez crea una sorta di penombra emotiva nel grande teatro milanese. Grande, immortale canzone, ed interpretazione di grande spessore della Baez e dei suoi accompagnatori. Il finale del concerto, inclusi i bis, è un’infilata di hit senza tempo. Si inizia con Gracias a la vida, di Violetta Parra, magica e commovente canzone dedicata alla gioia del vivere e alla speranza di una vita piena di dignità. Canzone ariosa e piena di sole, di luce, di speranza, di gioia cantata da una voce che sembra fare resuscitare, anche in un pubblico datato, la voglia di un mondo diverso, “sperabilmente” migliore. Si prosegue con C’era un ragazzo…che diventa un’occasione irripetibile per il pubblico di ritornare “giovane ed innocente” e, quindi, si unisce al canto della Baez accompagnandola nella sua performance con la chitarra che si esibisce in un miracolo di “imperfetta perfezione”. 

E’ poi la volta dell’inno pacifista per eccellenza, Imagine, con il pianoforte a tessere trame sonore e la Stamberg a fungere della seconda voce. Il pubblico canta con la Baez una sorta di inno gospell che contagerebbe anche chi si fosse presentato in teatro solo per ascoltare quella sola canzone. Per finire arriva un altro uppercut alla nostra capacità di mantenere a freno la commozione. Il brano che chiude il concerto è quella Here’s to you (musicata da Ennio Morricone), dedicata a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, immigrati ed anarchici italiani accusati di omicidio e per questa ragione uccisi sulla sedia elettrica nel 1923. Entrambi vennero scagionati da ogni accusa dal Governatore del Massachusset, George Dukakis, nel 1977. Interpretazione impeccabile chitarra e voce che tiene il pubblico appeso alle immagine del bel film di Giuliano Montaldo. E’ finita. La Baez e sce dal palco con un sorriso smagliante, consapevole del plauso del pubblico  e del buon concerto proposto, con il fattivo supporto dei musicisti accompagnatori. Ma il pubblico non ne vuole sapere ed insiste a riaverla sul palco…e così sarà…Accompagnata dal suoi musicisti arrivano al pubblico le note e le liriche di Blowin’ in the wind, omaggio al suo antico mèntore…La canzone si avvia, prosegue e termina tra gli applausi. Aggiungere altro sarebbe inopportuno. Solo, per un istante, appare alla memoria di chi scrive l’immagine in bianco e nero della marcia su Washington dell’agosto 1963. Ei c’era, lui c’era. C’era anche Martin Luther King ed i sogni di una generazione. Un’immagine in bianco e nero che ancora non si è trasformata in colore. 

Il concerto è terminato. Lei saluta con grande classe e lascia il palco. E’ stato un bel concerto, a dispetto delle ipotesi di defaillances vocali (che avrebbero potuto anche eserci) perché la Baez è una straordinaria professionista che ha dato quello e quanto poteva nonostante la sua veneranda età. Probabilmente non la vedremo più in Italia e gli Arcimboldi saranno il suo canto del cigno italiano (la prima volta fu il Teatro Lirico, oggi in fase di restauro) ma la sua musica e la sua grazia saranno, come ha dimostrato anche in questa occasione, un sigillo che non diventerà mai ruggine ma rimarrà sempre diamante…

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