L’attesa è durata nove anni, dall’aprile del 2006, ed il
pubblico del Teatro degli Arcimboldi di Milano lo dimostrava con una certa
impazienza. L’età media, ovviamente, era molto alta, almeno cinquant’anni, ma
l’età non era così importante perché era il passato, il presente, il futuro
quello presente sul palco. Alle ore 21.20 Joan
Baez è apparsa sul palco con la sua solita grazia, levità e sorriso ed il
pubblico si è sciolto in una applauso liberatorio. E dopo un bel sorriso la
chitarra acustica ha iniziato a fare scorrere le note di God is God, canzone scritta da Steve
Earle. Canzone fiera e della memoria.
Il canto è morbido e la chitarra viene arpeggiata con dolcezza. Il pubblico è in religioso silenzio quasi volesse accompagnare la voce della Baez avendo come paura che potesse spezzarsi. Ma non si spezza e gli applausi danno la giusta gratificazione alla canzone. Un boato accoglie l’intro di Farewell, Angelina, una canzone che h saputo resistere al tempo e con il tempo combatte e non invecchia. E’ una sorta di walzer del tempo immobile, è come se il mondo intero venisse raccolto in una canzone. La melodia è arcinota, ovviamente, ma a nessuno verrebbe in mente di dire che, forse, sarebbe meglio una canzone meno nota. La follia non è seduta sulle poltrone del teatro milanese…
Il canto è morbido e la chitarra viene arpeggiata con dolcezza. Il pubblico è in religioso silenzio quasi volesse accompagnare la voce della Baez avendo come paura che potesse spezzarsi. Ma non si spezza e gli applausi danno la giusta gratificazione alla canzone. Un boato accoglie l’intro di Farewell, Angelina, una canzone che h saputo resistere al tempo e con il tempo combatte e non invecchia. E’ una sorta di walzer del tempo immobile, è come se il mondo intero venisse raccolto in una canzone. La melodia è arcinota, ovviamente, ma a nessuno verrebbe in mente di dire che, forse, sarebbe meglio una canzone meno nota. La follia non è seduta sulle poltrone del teatro milanese…
Dopo la figura di Bob Dylan
arrivano le ombre di Phil Ochs, con
la Baez che presenta, con l’arpeggio introduttivo, le note di There but for fortune, una canzone che
riesce anch’essa a non invecchiare sia per la sua eterna giovinezza di ballata
popolare sia per le sue liriche purtroppo ancora attuali a cinquant’anni dalla
sua pubblicazione. Le note alte sono ormai imprendibili ma la grande cognizione
della tecnica di canto che la Baez possiede le permettono di presentare la
canzone con la medesima dolcezza di mille altre serate ed incisioni. Al termine
della canzone entrano sul palco Gabriel
Harris (suo figlio) alle
percussioni e Dirk Powell, polistrumentista.
Il suono del banjo e delle percussioni accompagnano la voce di velluto fine di
una ballata piena di garbo e di visioni qual è Lily of the West. Ballata di fine ottocento, di origine irlandese,
cantata da miriadi di artisti tra i quali, ovviamente, Bob Dylan. E’ una
splendida ballata cantata e suonata con una grande classe e professionalità.
Ancora in trio per una bella versione di It’s
all over now, baby blue, dove la voce appare come fosse una sorta di
pennello di un pensiero superiore capace di dipingere i sentimenti affettivi e
relazionali di una grande storia d’amore. Questa è un’altra canzone senza tempo
piena di amore, gioia e dolore insieme. Una canzone che ha al suo interno un
calor bianco di intensità così potente che dopo cinquant’anni non accenna a
diminuire nella sua capacità di stupire e di emozionare. Il mandolino di Powell
accompagna la voce della Baez nella canzone Mi verganza personal (La mia vendetta personale), di Luis Enrique Mejia Godoy, un cantautore
nicaraguense e sandinista che racconta di come la migliore vendetta nei
confronti della dittatura somozista sia quella dell’alfabetizzazione,
dell’istruzione, perché solo emergendo dall’ignoranza è possibile iniziare a
riacquistare dignità e diritti. La voce è splendida, sommessa, perfetta nel suo
spagnolo, sua lingua madre.
Anticipata da una dedica ai No Tav, che lottano per
la salvezza della Val Di Susa dalla scelta di fare passare da quelle montagne
il treno ad alta velocità, arrivano le note di un altro classico del canzoniere
dell’artista statunitense. Si tratta di Joe
Hill, canzone storica che ricorda la vita e le opere di un sindacalista
americano, di origine svedese, che venne ingiustamente accusato di omicidio e,
per questa ragione, fucilato. Da sempre presente nelle sue performances la si
ricorda, anche, cantata dal palco di Woodstock. Il bandeon suonato da Powell
rende l’atmosfera meno carica di tensione e più “leggera” dal punto di vista. Un mondo d’amore è l’omaggio alla
platea che batte il tempo e canta insieme a lei. Il suono sincopato del basso
acustico accompagna il ritmo della canzone e la voce della Baez. E’ solo un
immagine, ma ci si sente catturati dalle immagini degli anni ’60 e dai 45 giri
che inondavano di note e di allegria le case degli italiani del boom economico.
Pianoforte e voce aprono una bella versione di Jerusalem, una canzone memorabile che la Baez canta in maniera
sontuosa, con la capacità di creare un’atmosfera di grande attenzione e
profondità. Una melodia struggente raggiunta e mantenuta grazie ad una vocalità
commovente che sa di antico e, nel contempo, che guarda al futuro, capace di
non perdere nemmeno un istante di tensione e, nel contempo, capace di
trasferire una forte emozione a tutto il pubblico. Il pianoforte è padrone
della melodia e dimostra la capacità di Powell di supportare, in maniera
professionale, la forza evocativa della voce della Baez. In Just the way you are, grande ballata
scritta da Billy Joel, la Baez viene
“assistita” dalla sua assistente, tal Grace
Stamberg che, a dispetto della sua altezza certamente di non particolare
taglia, riesce a dare un sostegno vocale alla Baez.
La bellissima melodia di questa
canzone si spande all’interno del teatro e le sue note attraversano lo spazio
ed il tempo riducendo la distanza tra il presente ed il passato. L’atmosfera
che si respira è di grande rilassatezza e questo hit di fine anni ’70 riesce
ancora a smuovere passioni ed emozioni. Le note di Diamond and rust sono, insieme alle note stillate dalla chitarra
solo della Baez, una sorta di balsamo per ogni malinconia. Una straordinaria
canzone che richiama alla storia d’amore con Dylan e, con oltre un decennio di
ritardo, è da interpretarsi come una sorta di risposta alla sua It’s all over now, baby blue. La
chitarra e la voce sembra vogliano piangere per un amore perduto ma senza la
drammaticità di una storia finita in tragedia. La voce è piena calda, profonda,
diretta. La Baez dà forse il meglio di sé in questa canzone, forte e tesa ma,
al contempo, con lo sguardo verso l’orizzonte del futuro che attende. Gli
applausi sembrano non voler smettere di risuonare nel teatro ed è subito il
momento di Swing low, sweet chariot,
uno spiritual che ha fatto parte del repertorio della Baez fin dagli esordi. La
canzone venne scritta da Wallis Willis,
alla metà degli anni ’60 dell’ottocento e venne poi incisa agli inizi degli
anni ’10 del novecento. Voce piena, accompagnata dalla chitarra, che rende
forte ed intensa la performance. I successivi brani sembrano volere volgere lo
sguardo verso il mondo ebraico e quello musulmano. E’ in fatti il momento di Dona, dona e di Jaria hamounda, che sembrano le facce di una medesima medaglia.
Influenzata dalla diaspora la prima, intrisa di deserto ed orizzonti sabbiosi,
la seconda. Canzone melodiosa e struggente la prima, percussiva e ritmica, la
seconda. Seven curses è nuovamente
Dylan che irrompe sulla scena con l’incedere di un murder ballad. Donne,
uomini, giudici, impiccati. Il classico mix di ingredienti che danno vita alle
tragedie, come infatti la storia racconta e come le percussioni fanno
risaltare.
Un vecchio brano di John
Fahey, Give me cornbread when I’m hungry arriva a
sparigliare le carte di un concerto che si immaginava conoscere a memoria.
Banjo e percussioni a dettare i tempi per creare le condizioni di una canzone
popolare con balletto finale tra la Baez ed il bravo Powell. Fanno appena in
tempo a placarsi gli applausi che partono le note della vecchia ballata The house of the rising sun, proposta
da innumerevoli artisti (Dylan incluso agli albori della sua carriera) con la
versione degli Animals fissa nella
memoria. La voce è mirabile ed assolutamente dentro il brano. Quello che viene
a crearsi è un clima di grande tensione ed emozione e la canzone apre orizzonti
alla fantasia che si lascia ammaliare dalla voce e dall’atmosfera in cui la
voce della Baez e le immagini che scaturiscono dalla sua voce, lasciano
scaturire. Il seguito del brano è Long
black veil quindi il knock out è assicurato. La canzone, conosciuta
soprattutto per la versione sontuosa di Johnny
Cash, è un’altra murder ballad e ricalca la sua origine country con il violino
d Powell a dettare la melodia mentre la voce della Baez crea una sorta di
penombra emotiva nel grande teatro milanese. Grande, immortale canzone, ed
interpretazione di grande spessore della Baez e dei suoi accompagnatori. Il
finale del concerto, inclusi i bis, è un’infilata di hit senza tempo. Si inizia
con Gracias a la vida, di Violetta Parra, magica e commovente
canzone dedicata alla gioia del vivere e alla speranza di una vita piena di
dignità. Canzone ariosa e piena di sole, di luce, di speranza, di gioia cantata
da una voce che sembra fare resuscitare, anche in un pubblico datato, la voglia
di un mondo diverso, “sperabilmente” migliore. Si prosegue con C’era un ragazzo…che diventa
un’occasione irripetibile per il pubblico di ritornare “giovane ed innocente”
e, quindi, si unisce al canto della Baez accompagnandola nella sua performance
con la chitarra che si esibisce in un miracolo di “imperfetta perfezione”.
E’
poi la volta dell’inno pacifista per eccellenza, Imagine, con il pianoforte a tessere trame sonore e la Stamberg a
fungere della seconda voce. Il pubblico canta con la Baez una sorta di inno
gospell che contagerebbe anche chi si fosse presentato in teatro solo per
ascoltare quella sola canzone. Per finire arriva un altro uppercut alla nostra
capacità di mantenere a freno la commozione. Il brano che chiude il concerto è
quella Here’s to you (musicata da Ennio Morricone), dedicata a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, immigrati ed anarchici italiani accusati di
omicidio e per questa ragione uccisi sulla sedia elettrica nel 1923. Entrambi
vennero scagionati da ogni accusa dal Governatore del Massachusset, George Dukakis, nel 1977.
Interpretazione impeccabile chitarra e voce che tiene il pubblico appeso alle
immagine del bel film di Giuliano Montaldo.
E’ finita. La Baez e sce dal palco con un sorriso smagliante, consapevole del
plauso del pubblico e del buon concerto
proposto, con il fattivo supporto dei musicisti accompagnatori. Ma il pubblico
non ne vuole sapere ed insiste a riaverla sul palco…e così sarà…Accompagnata
dal suoi musicisti arrivano al pubblico le note e le liriche di Blowin’ in the wind, omaggio al suo
antico mèntore…La canzone si avvia, prosegue e termina tra gli applausi.
Aggiungere altro sarebbe inopportuno. Solo, per un istante, appare alla memoria
di chi scrive l’immagine in bianco e nero della marcia su Washington
dell’agosto 1963. Ei c’era, lui c’era. C’era anche Martin Luther King ed i
sogni di una generazione. Un’immagine in bianco e nero che ancora non si è
trasformata in colore.
Il concerto è terminato. Lei saluta con grande classe e
lascia il palco. E’ stato un bel concerto, a dispetto delle ipotesi di defaillances
vocali (che avrebbero potuto anche eserci) perché la Baez è una straordinaria
professionista che ha dato quello e quanto poteva nonostante la sua veneranda
età. Probabilmente non la vedremo più in Italia e gli Arcimboldi saranno il suo
canto del cigno italiano (la prima volta fu il Teatro Lirico, oggi in fase di
restauro) ma la sua musica e la sua grazia saranno, come ha dimostrato anche in
questa occasione, un sigillo che non diventerà mai ruggine ma rimarrà sempre
diamante…
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