L’immagine della locandina
della festa-concerto per i 40 anni dall’uscita dell’album “Sugo” (che con il
seguito, “Diesel”, deve essere, a mio avviso, incluso nei primi 10 album
dei migliori 50 della discografia italiana), ci rimanda l’immagine di un
ragazzo pieno di vitalità, esplosivo, ricco di talento alla ricerca delle
modalità ed occasioni per emergere. Un giovane certamente ambizioso e
consapevole dei suoi mezzi, determinato a lavorare nel mondo della musica (dove
i suoi geni ne hanno quasi naturalmente collocato il futuro…). Quel ragazzo si
chiama Eugenio Finardi e se l’età ed
il tempo lo hanno fatto diventare, in apparenza, una sorta di Guru della musica
italiana, il suo spirito profondo è sempre in eterno sommovimento, come una
sorta di magma che non ha mai pace, che non si rassegna né allo scorrere del
tempo né allo stupidario ed alla cattiveria che circonda questi nostri anni
pieni di grigiore.
A riprova di ciò dagli Stati Uniti d’America ci perviene
l’immagine plastica del degrado politico e sociale di quel Paese che, bene o
male, ha rappresentato, per molti della mia generazione, un faro di
controcultura, di passione musicale, di sguardi sul mondo senza gli occhiali
del conformismo. Ora non più. Come avviene in tanti altri luoghi di questo
martoriato pianeta dalla bellezza abbacinante, stordente, inconcepibile che ha
però incontrato “padroni” che hanno utilizzato il mandato biblico di
“assoggettare la terra” come fosse una missione per distruggerla. Eppure quella
immagine vitale, nonostante le difficoltà di questi tempi, ci rincuora e ci
rende ancora capaci di sorridere, non solo in termini di convenzione, bensì di
reale adesione a valori che, probabilmente, tutti i presenti al concerto del 4
novembre, al Teatro “Dal Verme” di
Milano avevano condiviso cercando di rendere concreta un’utopia. Se poi le cose
non sono andate come sperato, ciò è certamente da attribuire sia all’animo
umano che, con grande facilità “si corrompe” ma, anche, alle sorti avverse che
hanno attraversato il nostro tempo inquieto e gravido di trasformazioni non
necessariamente positive.
Da quello sguardo pieno di luce (lo scatto è del
bravo Roberto Masotti) si è
trasformato il mondo: sono scomparse le grandi fabbriche, abbiamo vissuto gli
anni di piombo, Tangentopoli, la fine della Prima Repubblica, la rivoluzione
iraniana, la trasformazione della Cina e l’evoluzione dell’informatica, l’uso
del cellulare proveniente dalla fantascienza. Insomma, nulla è rimasto uguale a
ciò che avevamo conosciuto, subìto, vissuto, amato…Da quello sguardo si è
dipanato un mondo che ci ha visto protagonisti e vittime al contempo. Un mondo
che, mi auguro, non ci abbia trasformato più del necessario e, se possibile,
migliorati. “Sugo” e “Diesel”, per tornare alla musica, sono stati tra i
racconti che in quegli anni hanno saputo rappresentare quello che, in
particolare a Milano, si stava sviluppando a livello musicale, culturale,
politico. Ma mentre la politica ha deviato, e di molto, tanti degli ideali
incarnati nei sogni di quella generazione, la cultura e la musica hanno saputo
manifestare, al meglio, le pulsioni sociali, emotive, generazionali di quegli
anni dove, grazie alla rivoluzione epocale post-Beatles
le convezioni erano cadute e davanti agli occhi di ciascuno c’erano le grandi e
sconfinate praterie di un mondo inesplorato che aspettava d’essere catturato
dalla fantasia di ciascuno dei protagonisti. Cioè noi…che eravamo compatti per
questa bella serata di musica posta all’inizio dell’Autunno milanese, sempre
diviso tra brume nebbiose del mattino e quelle dolci giornate di sole che
vorremmo ritrovare accanto a noi in ogni passo dell’Inverno a venire.
Ma cominciamo dalla fine e
dagli assenti. La fine del concerto-evento, con un “Dal Verme” esaurito, è
sancita da “Extraterrestre”, che viene eseguita da tutti i musicisti che si
sono esibiti nel corso della serata.. Una canzone famosa ma, anche,
metafora di un musicista che ha saputo cavalcare quasi 45 anni di carriera,
ovviamente con alti e bassi ma senza mai abbassare il livello delle sue
produzioni né svendersi al mercato. Cosa non da poco in anni dove la
discografia italiana, e non solo, è andata costantemente a picco in termine di
vendite (salvo pochissimi artisti, sempre quelli…). Ma Eugenio non si è
lasciato abbattere e anche nei momenti più difficili ha proposto progetti di
grande qualità. Giusto per ricordare “Il
silenzio e lo Spirito”, “Il cantante
al microfono”, “O fado”.
Capitoli artistici certamente non semplici ma di altissima caratura e da lui
vissuta con la solita prorompente e contagiosa intensità. Ma l’uomo Eugenio e
l’artista Finardi sono fatti così: grande determinazione e forte convinzione
delle proprie ragioni e capacità, anche quando la ragione avrebbe detto che
forse era meglio piegarsi al mercato…
Quindi l’Extraterrestre, alla fine, è
proprio lui, capace di raccogliere intorno a sé tanti amici musicisti che, nel
tempo hanno, collaborato con lui e la cui stima è stata evidente in ogni passaggio
della serata. E poi gli assenti, ugualmente presenti nell’affetto di tutti: Stefano Cerri, Demetrio Stratos, Gianni
Sassi, Donatella Bardi, Paolo “Feyez” Panigada e Hugh Bullen, citato all’inizio del concerto perché il bassista dei
Caraibi era stato contattato da Eugenio per questa serata ma, purtroppo, si è
saputo che era scomparso qualche giorno prima, dopo una lunga malattia. “Mi aveva detto che non poteva venire perché
ora avrebbe suonato per Nostro Signore Gesù Cristo. Non avevo capito che fosse
così malato…” queste le parole di Eugenio prima di iniziare il concerto con
una versione di Amazing Grace cantata, da solo, a cappella. E l’emozione non
era solo nelle sue corde vocali ma ha messo le ali a tutto il teatro…
Dopo questo bell’omaggio
al “suo” bassista di “Sugo” il concerto parte con una vigorosa versione di “Se
solo avessi”, con la band che dà subito l’idea di essere in piena forma
con la chitarra elettrica aggiuntiva di Lucio
Bardi a supporto di quella di Giovanni
Maggiore e con il violino di Lucio
Fabbri ad “ingentilire” la potenza del brano. “Se solo avessi/le idee chiare/ma siccome le idee chiare non le ho”
sono liriche forse ingenue ma certamente oneste di un ventiduenne che iniziava
a lavorare in maniera seria e decisa nel mondo discografico con il suo primo
album. Il possente e continuativo applauso rendono chiare le intenzioni del
pubblico presente: un affettuoso e costante supporto al “festeggiato”. Per “La C.I.A.” Eugenio imbraccia un bel
basso Fender e con il supporto percussivo di Maurizio Preti ed il violino di Lucio Fabbri parte un tempo
“raggato” che trascina con sé le note di una canzone che anticipava, nelle
sonorità i Police e nella realtà WikiLeaks ed Assange. In un tripudio di luci multicolori il brano si dipana
roccioso “abbracciato” da un bell’assolo di Giovanni Maggiore, un virtuoso
della chitarra, per l’occasione all’acustica.
“Oggi ho imparato a volare”
vede il ritorno sul palco di Bardi alla chitarra e l’uscita di Preti. Eugenio è
all’acustica ed il brano è improntato come una classica ballata. Un brano,
questo, molto amato dal suo pubblico, che lo segue con particolare trasporto
mentre viene “accudito” dal violino di Fabbri. Liriche intense ed evocative,
molto sincere ricordando il contesto generazionale nel quale vennero composte.
“Saluteremo
il signor padrone” vede l’uscita dal palco di Fabbri e la presenza
della precedente line-up. Questo brano è stato uno dei classici del primo
Finardi che ebbe l’intuizione di sdoganare la canzone popolare (in questo caso
di Giovanna Marini e Ivan Della Mea) trasformandola in una
possibile visione dalla finestra del rock. Una bella versione nel suo classico
stile con una potenza sonora in stile Who
che si dipana attraverso la chitarra elettrica “strapazzata” dal bravo
Maggiore. “Soldi” è un bel rock blues deciso e tenace che vede uno
scintillio di note elettriche generate in particolare del suono delle tre
chitarre elettriche (Eugenio, Bardi, Maggiore). Un bell’episodio pieno di
sostanza e potenza ed una sorta di inno al suono degli anni ’70. La versione di
“Sulla
strada” presentata da Eugenio con l’innesto sul palco delle percussioni
di Preti ed il sax pieno di colori di Claudio
Pascoli.
L’attacco è bruciante e la storia dei musicisti che corrono da un
palco all’altro è vissuta come una sequenza cinematografica che, nonostante
l’auto intelligente odierna, ripropone immagini di vecchi furgoni tenuti
insieme dalla passione e dal fato benigno. Tre chitarre acustiche sorreggono il
ritmo e la melodia della canzone che è accolta con grande gioia dal pubblico.
La versione di “Voglio” vede la presenza, insieme alla chitarra di Maggiore e
del piano elettrico di Paolo Gambino,
il basso di Faso, il piano elettrico
di Vittorio Cosma e Mark Harris, la
batteria di Walter Calloni, il
violino di Lucio Fabbri. Eugenio è al pianoforte (con qualche “cautela”
preventiva…”E’ da tempo che non lo suono…”
avvisa…). Questa la si potrebbe definire la canzone dei desideri realizzati, di
quelli realizzati in parte, di quelli mai realizzati. Una canzone ancora oggi
capace di incantare nonostante le migliaia di ascolti. Calloni dimostra di
essere ancora un “mostro di bravura” alla batteria, Faso esprime un suono
rotondo e pieno con il suo basso elettrico prodigioso mentre la chitarra
elettrica di Maggiore suona proprio l’originale del disco, a riprova che la
simbiosi con il band leader è ormai assoluta. Il finale è un’apoteosi di suoni
spaziali che si volgono verso. La band precedente “si disfa” e rimangono in
campo solo Calloni e Gambino per l’arrivo di due strepitosi musicisti quali Patrizio Fariselli e Ares Tavolazzi. E
la band così costituita si lancia in una strepitosa versione di “Diesel”
con le dita spiritate di Fariselli che trasformano il suo piano elettrico in
uno strumento multicolore e multisonoro, ubriacando letteralmente il pubblico
con un suono liquido unico, in eguagliabile, insuperabile. La batteria di
Calloni è una macchina piena di note che si trasformano in scintille di
fragorosa bellezza e stupore. Fariselli è esplosivo nella sua capacità di
trasformare le note in emozioni e senza dimenticare il bravo Pascoli al sax. “Questa è Diesel” parrebbe voler dire
Eugenio “ha quarant’anni ma è ancora un
signor pezzo…” e come dargli torto…?
Stessa band per “Scuola” dove Eugenio
canta come un crooner una canzone con un testo che “tiene” ancora con dignità
tanto è attuale e veritiero per ciascuno di noi. Una disamina assolutamente
preziosa e sensibile sul fatto che, molto spesso, la scuola è uno spreco di
talenti perché l’insegnamento è incapace di fare emergere le doti latenti di
chi è in fase di crescita. La canzone è l’invito ad andare certamente a scuola
ma, nel contempo, a non dimenticarsi di imparare un mestiere, a dedicarsi a suonare
uno strumento perché in fondo “un talento
serve sempre”. “Quasar” è la traduzione in italiano del suono magico ed
inafferrabile dei Weather Report. Il
suono è strepitoso e colpisce il fatto che è attuale quasi fosse stato scritto
qualche mese prima. La bravura dei musicisti è sublime e colpisce l’apparente
semplicità con la quale questo brano complesso viene proposto e suonato.
Fariselli usa la tastiera come un shynt e con la mano destra genera note e
suoni torrenziali mentre Tavolazzi ricorda che certamente Jaco Pastorius è stato un innovatore del basso elettrico ma che lui
non era, anche “a quei tempi” certamente un pivello…”Quasar” è il brano con cui
Eugenio, che non partecipa alla sua esecuzionen ha fotografato la figura di Gianni Sassi, con Sergio Albergoni il
fondatore della CRAMPS : “Di musica non ne capiva niente. Lui voleva
solo libertà sulle copertine degli album e ci lasciava la massima libertà di
espressione…”. Un matto oppure genio. La seconda diremmo tutti…E dopo la
bomba sonora di “Quasar” è il momento della dolcezza, della riflessione, della
introspezione, della ricerca interiore.
Con un testo che richiama alla dualità
del Tao e dell’I-Ching, arriva la sempre bella e delicata “La canzone dell’acqua”,
che Eugenio canta accompagnato dalla sua chitarra acustica e da quella
arpeggiata dal bravo Maggiore. Una canzone splendida che riesce a non
invecchiare né nella melodia che nelle liriche che parlano di ciascuno di noi.
Anche la successiva canzone, “Non diventare grande mai”, con
l’accompagnamento della band, ha liriche molto intense che sono riuscite a non
invecchiare ma, anzi, a consolidarsi, generazione dopo generazione. “Ero un ragazzo di 24 anni quando ho scritto
questa canzone e posso dire di non avere mai tradito i miei valori cantati…”
dice Eugenio prima di iniziare questo brano che, in un certo senso, rappresenta
un manifesto della propria vita e della maniera con cui relazionarsi agli
altri. “..e ad ognuno a secondo il suo
bisogno/e ad ognuno secondo le sue capacità” è la frase che suggella una
sorta di patto d’azione/d’amore tra San
Paolo e Carlo Marx. Il testo di questa canzone è da leggere con grande
attenzione e partecipazione per conoscere la profondità di scrittura di un
allora giovane artista. E la band, su questo brano, ci dà dentro alla grande
facendo arrivare il messaggio in profondità…
Giunge, poi, anche quella che, per
chi scrive, è una sorta di riassunto di un periodo storico-politco in quattro
minuti: “Giai Phong”, Una canzone che nasce dalla lettura dell’omonimo
libro di Tiziano Terzani sulla
ritirata degli americani dal Vietnam del Sud che descrive la fine della guerra
in Indocina con la successiva “pacificazione”. Certamente la realtà è molto più
complessa del tempo consentito da una canzone rock, ma l’intenzione era
comunque positiva ed il brano, musicalmente, non sfigura nemmeno oggi. Alla
band, in questo brano, si affiancano le percussioni di Preti e il sax del
sempre preciso e ficcante Pascoli. “Non è nel cuore” è cantata da Eugenio
con l’atteggiamento del crooner e la band lo accompagna con un suono minimale
ed intimo che Maggiore, alla fine, fa “esplodere” con uno dei suoi assolo chitarristici
di grande classe. Questa è una di quelle canzoni che fanno cantare il pubblico
ed anche quello del Dal Verme lo fa. In maniera tiepida, invero, forse per
l’età media dei presenti che rende sempre tutto un po’ più complicato quando si
devono esibire i propri sentimenti.
E dopo un brano così delicato, anche per le
implicanze “femministe” del testo, quello che non ti aspetteresti è la bordata
sonora ed emotiva di “Scimmia” che fotografa un periodo
terribile della mia generazione. L’uso delle droghe pesanti, in particolare
l’eroina, che ha distrutto la vita di centinaia di migliaia di giovani. La descrizione
che ne fa Eugenio nelle liriche cantate/gridate è straordinaria e nonostante
gli innumerevoli ascolti lascia sempre scioccati. Grande fu il suo coraggio, e
quello della CRAMPS, di proporre un brano così duro all’inizio di una carriera
discografica. Ma Eugenio aveva le spalle larghe e con l’ausilio della band il
climax creatosi nel teatro è davvero di strepitosa emozione. Sentimento,
questo, da stemperare e così arriva una
versione molto soft di “Taking it easy” con Eugenio al
pianoforte, Elio al flauto traverso (che fa sapere di aver portato quello bello
per la serata), Pascoli al sax e la band a seguirne le armonie con un tocco
sonoro molto soft. C’è ancora spazio per un suono soft e, quindi, non poteva
mancare uno degli inni degli anni ’70 ed oltre: “La radio”, canzone
innodica di un periodo particolare, che Eugenio canta accompagnato dalla
chitarra acustica e dal violino del magico Fabbri. Fanno doveroso contorno la
chitarra di Maggiore e la batteria del tonico Calloni. Una canzone, questa, tra
le più conosciute nel panorama musicale del nostro Paese.
“Zerbo” è la canzone della
nostalgia per antonomasia e qui Eugenio racconta, alla sua maniera con grandi
pennellate di poesia, la storia della controcultura italiana attraverso i
festival pop organizzati dalla rivista “Re
Nudo”. In pochi minuti scorrono davanti agli occhi, e nella memoria, le
immagini di un’Utopia che, come tale, non poteva realizzarsi ma, si percepisce,
era giusto perseguire. Per questo brano il palco si ripopola e, tra entranti ed
uscenti, ci sono, oltre ad Eugenio, Bardi, Spina e Preti, Harris, Pascoli, Lamagna, Maggiore e Gambino a sostenere
con i propri strumenti, il canto/racconto “nostalgico” di Eugenio. Il suono è
potente ma ancora di più è stato il racconto di un episodio accaduto a Padova
nel 1977 dove, nel corso di un concerto ad una festa dell’Unità, dal pubblico
arrivarono netti tre colpi di pistola verso il palco. Erano proprio tempi duri
e di piombo…anche per i musicisti…Ed Eugenio, di destra per quelli di sinistra
e di sinistra per quelli di destra, era un obbiettivo ideale per chiunque. Lui
è rimasto fermo suoi princìpi e non si è fatto comprare da nessuno mentre
altri, duri e puri…ma questa è un'altra storia…Con la stessa band, quasi fosse la
prosecuzione del ragionamento della canzone precedente, arriva il turno di “Cuba”
che, attraverso la dolcezza del suo suono caraibico, racconta di un'altra
Utopia che non ha poi trovato la sua attesa collocazione. Ma questa è la Storia
e non ci possiamo fare molto…
E poi, per finire, con
l’ingresso del mandolino di Bardi (strumento imbracciato anche da Eugenio), la
batteria di Calloni, le tastiere di Harris e Cosma, la chitarra di Maggiore, il
basso di Faso, il sax di Pascoli ed il violino di Fabbri, arriva il colpo
d’ariete finale. Attesa dall’inizio è finalmente il turno dell’inno generazione
per eccellenza. Si tratta, ovviamente di “Musica ribelle” che rende in maniera
straordinaria, oggi come ieri, l’immagine di una generazione, di più generazioni,
che sognava di raggiungere il cielo e che per poterlo fare doveva “mollare
le menate e mettersi a lottare”. Questo l’insegnamento finale di questi
anni e di questo bel concerto…Questa la lezione che in tutti questi anni
abbiamo ascolta da un razionale sognatore che ha lottato incessantemente per
non trasformarsi “in altro da sé” e, riuscendoci, ha aiutato anche noi a non
cadere nelle trappole delle lusinghe o peggio…
Ora che tutto è finito si
torna all’inizio della storia dove un ragazzo con lo sguardo pieno di vigore ed
illuminato da una speciale forza interiore, guarda il mondo negli occhi, decidendo
che è tempo di lanciare una sfida e di vincerla. Ha scritto centinaia di
canzoni. Alcune molto belle ed epocali. Non si è svenduto e non ha abdicato ai suoi
ideali. Come “Maestro” generazionale è stato certamente uno di quelli che ha
saputo liberare sane energie. E quando si semina bene, alla fine, si raccoglie.
Quindi, grazie Eugenio…
p.s.
La band di Eugenio sul
palco era composta da Paolo Gambino (tastiere), Giovanni “Giuvazza” Maggiore
(chitarre), Claudio Arfinengo (batteria), Marco Lamagna (basso).
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