lunedì 7 novembre 2016

“E’ UN GENIO” FINARDI: 40 ANNI (ED OLTRE) DI MUSICA RIBELLE


L’immagine della locandina della festa-concerto per i 40 anni dall’uscita dell’album “Sugo” (che con il seguito, “Diesel”, deve essere, a mio avviso, incluso nei primi 10 album dei migliori 50 della discografia italiana), ci rimanda l’immagine di un ragazzo pieno di vitalità, esplosivo, ricco di talento alla ricerca delle modalità ed occasioni per emergere. Un giovane certamente ambizioso e consapevole dei suoi mezzi, determinato a lavorare nel mondo della musica (dove i suoi geni ne hanno quasi naturalmente collocato il futuro…). Quel ragazzo si chiama Eugenio Finardi e se l’età ed il tempo lo hanno fatto diventare, in apparenza, una sorta di Guru della musica italiana, il suo spirito profondo è sempre in eterno sommovimento, come una sorta di magma che non ha mai pace, che non si rassegna né allo scorrere del tempo né allo stupidario ed alla cattiveria che circonda questi nostri anni pieni di grigiore. 

A riprova di ciò dagli Stati Uniti d’America ci perviene l’immagine plastica del degrado politico e sociale di quel Paese che, bene o male, ha rappresentato, per molti della mia generazione, un faro di controcultura, di passione musicale, di sguardi sul mondo senza gli occhiali del conformismo. Ora non più. Come avviene in tanti altri luoghi di questo martoriato pianeta dalla bellezza abbacinante, stordente, inconcepibile che ha però incontrato “padroni” che hanno utilizzato il mandato biblico di “assoggettare la terra” come fosse una missione per distruggerla. Eppure quella immagine vitale, nonostante le difficoltà di questi tempi, ci rincuora e ci rende ancora capaci di sorridere, non solo in termini di convenzione, bensì di reale adesione a valori che, probabilmente, tutti i presenti al concerto del 4 novembre, al Teatro “Dal Verme” di Milano avevano condiviso cercando di rendere concreta un’utopia. Se poi le cose non sono andate come sperato, ciò è certamente da attribuire sia all’animo umano che, con grande facilità “si corrompe” ma, anche, alle sorti avverse che hanno attraversato il nostro tempo inquieto e gravido di trasformazioni non necessariamente positive. 

Da quello sguardo pieno di luce (lo scatto è del bravo Roberto Masotti) si è trasformato il mondo: sono scomparse le grandi fabbriche, abbiamo vissuto gli anni di piombo, Tangentopoli, la fine della Prima Repubblica, la rivoluzione iraniana, la trasformazione della Cina e l’evoluzione dell’informatica, l’uso del cellulare proveniente dalla fantascienza. Insomma, nulla è rimasto uguale a ciò che avevamo conosciuto, subìto, vissuto, amato…Da quello sguardo si è dipanato un mondo che ci ha visto protagonisti e vittime al contempo. Un mondo che, mi auguro, non ci abbia trasformato più del necessario e, se possibile, migliorati. “Sugo” e “Diesel”, per tornare alla musica, sono stati tra i racconti che in quegli anni hanno saputo rappresentare quello che, in particolare a Milano, si stava sviluppando a livello musicale, culturale, politico. Ma mentre la politica ha deviato, e di molto, tanti degli ideali incarnati nei sogni di quella generazione, la cultura e la musica hanno saputo manifestare, al meglio, le pulsioni sociali, emotive, generazionali di quegli anni dove, grazie alla rivoluzione epocale post-Beatles le convezioni erano cadute e davanti agli occhi di ciascuno c’erano le grandi e sconfinate praterie di un mondo inesplorato che aspettava d’essere catturato dalla fantasia di ciascuno dei protagonisti. Cioè noi…che eravamo compatti per questa bella serata di musica posta all’inizio dell’Autunno milanese, sempre diviso tra brume nebbiose del mattino e quelle dolci giornate di sole che vorremmo ritrovare accanto a noi in ogni passo dell’Inverno a venire.

Ma cominciamo dalla fine e dagli assenti. La fine del concerto-evento, con un “Dal Verme” esaurito, è sancita da “Extraterrestre”, che viene eseguita da tutti i musicisti che si sono esibiti nel corso della serata.. Una canzone famosa ma, anche, metafora di un musicista che ha saputo cavalcare quasi 45 anni di carriera, ovviamente con alti e bassi ma senza mai abbassare il livello delle sue produzioni né svendersi al mercato. Cosa non da poco in anni dove la discografia italiana, e non solo, è andata costantemente a picco in termine di vendite (salvo pochissimi artisti, sempre quelli…). Ma Eugenio non si è lasciato abbattere e anche nei momenti più difficili ha proposto progetti di grande qualità. Giusto per ricordare “Il silenzio e lo Spirito”, “Il cantante al microfono”, “O fado”. Capitoli artistici certamente non semplici ma di altissima caratura e da lui vissuta con la solita prorompente e contagiosa intensità. Ma l’uomo Eugenio e l’artista Finardi sono fatti così: grande determinazione e forte convinzione delle proprie ragioni e capacità, anche quando la ragione avrebbe detto che forse era meglio piegarsi al mercato…

Quindi l’Extraterrestre, alla fine, è proprio lui, capace di raccogliere intorno a sé tanti amici musicisti che, nel tempo hanno, collaborato con lui e la cui stima è stata evidente in ogni passaggio della serata. E poi gli assenti, ugualmente presenti nell’affetto di tutti: Stefano Cerri, Demetrio Stratos, Gianni Sassi, Donatella Bardi, Paolo “Feyez” Panigada e Hugh Bullen, citato all’inizio del concerto perché il bassista dei Caraibi era stato contattato da Eugenio per questa serata ma, purtroppo, si è saputo che era scomparso qualche giorno prima, dopo una lunga malattia. “Mi aveva detto che non poteva venire perché ora avrebbe suonato per Nostro Signore Gesù Cristo. Non avevo capito che fosse così malato…” queste le parole di Eugenio prima di iniziare il concerto con una versione di Amazing Grace cantata, da solo, a cappella. E l’emozione non era solo nelle sue corde vocali ma ha messo le ali a tutto il teatro…
Dopo questo bell’omaggio al “suo” bassista di “Sugo” il concerto parte con una vigorosa versione di “Se solo avessi”, con la band che dà subito l’idea di essere in piena forma con la chitarra elettrica aggiuntiva di Lucio Bardi a supporto di quella di Giovanni Maggiore e con il violino di Lucio Fabbri ad “ingentilire” la potenza del brano. “Se solo avessi/le idee chiare/ma siccome le idee chiare non le ho” sono liriche forse ingenue ma certamente oneste di un ventiduenne che iniziava a lavorare in maniera seria e decisa nel mondo discografico con il suo primo album. Il possente e continuativo applauso rendono chiare le intenzioni del pubblico presente: un affettuoso e costante supporto al “festeggiato”. Per “La C.I.A.” Eugenio imbraccia un bel basso Fender e con il supporto percussivo di Maurizio Preti ed il violino di Lucio Fabbri parte un tempo “raggato” che trascina con sé le note di una canzone che anticipava, nelle sonorità i Police e nella realtà WikiLeaks ed Assange. In un tripudio di luci multicolori il brano si dipana roccioso “abbracciato” da un bell’assolo di Giovanni Maggiore, un virtuoso della chitarra, per l’occasione all’acustica. 

Oggi ho imparato a volare” vede il ritorno sul palco di Bardi alla chitarra e l’uscita di Preti. Eugenio è all’acustica ed il brano è improntato come una classica ballata. Un brano, questo, molto amato dal suo pubblico, che lo segue con particolare trasporto mentre viene “accudito” dal violino di Fabbri. Liriche intense ed evocative, molto sincere ricordando il contesto generazionale nel quale vennero composte. “Saluteremo il signor padrone” vede l’uscita dal palco di Fabbri e la presenza della precedente line-up. Questo brano è stato uno dei classici del primo Finardi che ebbe l’intuizione di sdoganare la canzone popolare (in questo caso di Giovanna Marini e Ivan Della Mea) trasformandola in una possibile visione dalla finestra del rock. Una bella versione nel suo classico stile con una potenza sonora in stile Who che si dipana attraverso la chitarra elettrica “strapazzata” dal bravo Maggiore. “Soldi” è un bel rock blues deciso e tenace che vede uno scintillio di note elettriche generate in particolare del suono delle tre chitarre elettriche (Eugenio, Bardi, Maggiore). Un bell’episodio pieno di sostanza e potenza ed una sorta di inno al suono degli anni ’70. La versione di “Sulla strada” presentata da Eugenio con l’innesto sul palco delle percussioni di Preti ed il sax pieno di colori di Claudio Pascoli

L’attacco è bruciante e la storia dei musicisti che corrono da un palco all’altro è vissuta come una sequenza cinematografica che, nonostante l’auto intelligente odierna, ripropone immagini di vecchi furgoni tenuti insieme dalla passione e dal fato benigno. Tre chitarre acustiche sorreggono il ritmo e la melodia della canzone che è accolta con grande gioia dal pubblico. La versione di “Voglio” vede la presenza, insieme alla chitarra di Maggiore e del piano elettrico di Paolo Gambino, il basso di Faso, il piano elettrico di Vittorio Cosma e Mark Harris, la batteria di Walter Calloni, il violino di Lucio Fabbri. Eugenio è al pianoforte (con qualche “cautela” preventiva…”E’ da tempo che non lo suono…” avvisa…). Questa la si potrebbe definire la canzone dei desideri realizzati, di quelli realizzati in parte, di quelli mai realizzati. Una canzone ancora oggi capace di incantare nonostante le migliaia di ascolti. Calloni dimostra di essere ancora un “mostro di bravura” alla batteria, Faso esprime un suono rotondo e pieno con il suo basso elettrico prodigioso mentre la chitarra elettrica di Maggiore suona proprio l’originale del disco, a riprova che la simbiosi con il band leader è ormai assoluta. Il finale è un’apoteosi di suoni spaziali che si volgono verso. La band precedente “si disfa” e rimangono in campo solo Calloni e Gambino per l’arrivo di due strepitosi musicisti quali Patrizio Fariselli e Ares Tavolazzi. E la band così costituita si lancia in una strepitosa versione di “Diesel” con le dita spiritate di Fariselli che trasformano il suo piano elettrico in uno strumento multicolore e multisonoro, ubriacando letteralmente il pubblico con un suono liquido unico, in eguagliabile, insuperabile. La batteria di Calloni è una macchina piena di note che si trasformano in scintille di fragorosa bellezza e stupore. Fariselli è esplosivo nella sua capacità di trasformare le note in emozioni e senza dimenticare il bravo Pascoli al sax. “Questa è Diesel” parrebbe voler dire Eugenio “ha quarant’anni ma è ancora un signor pezzo…” e come dargli torto…? 

Stessa band per “Scuola” dove Eugenio canta come un crooner una canzone con un testo che “tiene” ancora con dignità tanto è attuale e veritiero per ciascuno di noi. Una disamina assolutamente preziosa e sensibile sul fatto che, molto spesso, la scuola è uno spreco di talenti perché l’insegnamento è incapace di fare emergere le doti latenti di chi è in fase di crescita. La canzone è l’invito ad andare certamente a scuola ma, nel contempo, a non dimenticarsi di imparare un mestiere, a dedicarsi a suonare uno strumento perché in fondo “un talento serve sempre”. “Quasar” è la traduzione in italiano del suono magico ed inafferrabile dei Weather Report. Il suono è strepitoso e colpisce il fatto che è attuale quasi fosse stato scritto qualche mese prima. La bravura dei musicisti è sublime e colpisce l’apparente semplicità con la quale questo brano complesso viene proposto e suonato. Fariselli usa la tastiera come un shynt e con la mano destra genera note e suoni torrenziali mentre Tavolazzi ricorda che certamente Jaco Pastorius è stato un innovatore del basso elettrico ma che lui non era, anche “a quei tempi” certamente un pivello…”Quasar” è il brano con cui Eugenio, che non partecipa alla sua esecuzionen ha fotografato la figura di Gianni Sassi, con Sergio Albergoni il fondatore della CRAMPS : “Di musica non ne capiva niente. Lui voleva solo libertà sulle copertine degli album e ci lasciava la massima libertà di espressione…”. Un matto oppure genio. La seconda diremmo tutti…E dopo la bomba sonora di “Quasar” è il momento della dolcezza, della riflessione, della introspezione, della ricerca interiore. 

Con un testo che richiama alla dualità del Tao e dell’I-Ching, arriva la sempre bella e delicata “La canzone dell’acqua”, che Eugenio canta accompagnato dalla sua chitarra acustica e da quella arpeggiata dal bravo Maggiore. Una canzone splendida che riesce a non invecchiare né nella melodia che nelle liriche che parlano di ciascuno di noi. Anche la successiva canzone, “Non diventare grande mai”, con l’accompagnamento della band, ha liriche molto intense che sono riuscite a non invecchiare ma, anzi, a consolidarsi, generazione dopo generazione. “Ero un ragazzo di 24 anni quando ho scritto questa canzone e posso dire di non avere mai tradito i miei valori cantati…” dice Eugenio prima di iniziare questo brano che, in un certo senso, rappresenta un manifesto della propria vita e della maniera con cui relazionarsi agli altri. “..e ad ognuno a secondo il suo bisogno/e ad ognuno secondo le sue capacità” è la frase che suggella una sorta di patto d’azione/d’amore tra San Paolo e Carlo Marx. Il testo di questa canzone è da leggere con grande attenzione e partecipazione per conoscere la profondità di scrittura di un allora giovane artista. E la band, su questo brano, ci dà dentro alla grande facendo arrivare il messaggio in profondità…

Giunge, poi, anche quella che, per chi scrive, è una sorta di riassunto di un periodo storico-politco in quattro minuti: “Giai Phong”, Una canzone che nasce dalla lettura dell’omonimo libro di Tiziano Terzani sulla ritirata degli americani dal Vietnam del Sud che descrive la fine della guerra in Indocina con la successiva “pacificazione”. Certamente la realtà è molto più complessa del tempo consentito da una canzone rock, ma l’intenzione era comunque positiva ed il brano, musicalmente, non sfigura nemmeno oggi. Alla band, in questo brano, si affiancano le percussioni di Preti e il sax del sempre preciso e ficcante Pascoli. “Non è nel cuore” è cantata da Eugenio con l’atteggiamento del crooner e la band lo accompagna con un suono minimale ed intimo che Maggiore, alla fine, fa “esplodere” con uno dei suoi assolo chitarristici di grande classe. Questa è una di quelle canzoni che fanno cantare il pubblico ed anche quello del Dal Verme lo fa. In maniera tiepida, invero, forse per l’età media dei presenti che rende sempre tutto un po’ più complicato quando si devono esibire i propri sentimenti. 

E dopo un brano così delicato, anche per le implicanze “femministe” del testo, quello che non ti aspetteresti è la bordata sonora ed emotiva di “Scimmia” che fotografa un periodo terribile della mia generazione. L’uso delle droghe pesanti, in particolare l’eroina, che ha distrutto la vita di centinaia di migliaia di giovani. La descrizione che ne fa Eugenio nelle liriche cantate/gridate è straordinaria e nonostante gli innumerevoli ascolti lascia sempre scioccati. Grande fu il suo coraggio, e quello della CRAMPS, di proporre un brano così duro all’inizio di una carriera discografica. Ma Eugenio aveva le spalle larghe e con l’ausilio della band il climax creatosi nel teatro è davvero di strepitosa emozione. Sentimento, questo, da stemperare e così  arriva una versione molto soft di “Taking it easy” con Eugenio al pianoforte, Elio al flauto traverso (che fa sapere di aver portato quello bello per la serata), Pascoli al sax e la band a seguirne le armonie con un tocco sonoro molto soft. C’è ancora spazio per un suono soft e, quindi, non poteva mancare uno degli inni degli anni ’70 ed oltre: “La radio”, canzone innodica di un periodo particolare, che Eugenio canta accompagnato dalla chitarra acustica e dal violino del magico Fabbri. Fanno doveroso contorno la chitarra di Maggiore e la batteria del tonico Calloni. Una canzone, questa, tra le più conosciute nel panorama musicale del nostro Paese. 

Zerbo” è la canzone della nostalgia per antonomasia e qui Eugenio racconta, alla sua maniera con grandi pennellate di poesia, la storia della controcultura italiana attraverso i festival pop organizzati dalla rivista “Re Nudo”. In pochi minuti scorrono davanti agli occhi, e nella memoria, le immagini di un’Utopia che, come tale, non poteva realizzarsi ma, si percepisce, era giusto perseguire. Per questo brano il palco si ripopola e, tra entranti ed uscenti, ci sono, oltre ad Eugenio, Bardi, Spina e Preti, Harris, Pascoli, Lamagna, Maggiore e Gambino a sostenere con i propri strumenti, il canto/racconto “nostalgico” di Eugenio. Il suono è potente ma ancora di più è stato il racconto di un episodio accaduto a Padova nel 1977 dove, nel corso di un concerto ad una festa dell’Unità, dal pubblico arrivarono netti tre colpi di pistola verso il palco. Erano proprio tempi duri e di piombo…anche per i musicisti…Ed Eugenio, di destra per quelli di sinistra e di sinistra per quelli di destra, era un obbiettivo ideale per chiunque. Lui è rimasto fermo suoi princìpi e non si è fatto comprare da nessuno mentre altri, duri e puri…ma questa è un'altra storia…Con la stessa band, quasi fosse la prosecuzione del ragionamento della canzone precedente, arriva il turno di “Cuba” che, attraverso la dolcezza del suo suono caraibico, racconta di un'altra Utopia che non ha poi trovato la sua attesa collocazione. Ma questa è la Storia e non ci possiamo fare molto…

E poi, per finire, con l’ingresso del mandolino di Bardi (strumento imbracciato anche da Eugenio), la batteria di Calloni, le tastiere di Harris e Cosma, la chitarra di Maggiore, il basso di Faso, il sax di Pascoli ed il violino di Fabbri, arriva il colpo d’ariete finale. Attesa dall’inizio è finalmente il turno dell’inno generazione per eccellenza. Si tratta, ovviamente di “Musica ribelle” che rende in maniera straordinaria, oggi come ieri, l’immagine di una generazione, di più generazioni, che sognava di raggiungere il cielo e che per poterlo fare doveva “mollare le menate e mettersi a lottare”. Questo l’insegnamento finale di questi anni e di questo bel concerto…Questa la lezione che in tutti questi anni abbiamo ascolta da un razionale sognatore che ha lottato incessantemente per non trasformarsi “in altro da sé” e, riuscendoci, ha aiutato anche noi a non cadere nelle trappole delle lusinghe o peggio…

Ora che tutto è finito si torna all’inizio della storia dove un ragazzo con lo sguardo pieno di vigore ed illuminato da una speciale forza interiore, guarda il mondo negli occhi, decidendo che è tempo di lanciare una sfida e di vincerla. Ha scritto centinaia di canzoni. Alcune molto belle ed epocali. Non si è svenduto e non ha abdicato ai suoi ideali. Come “Maestro” generazionale è stato certamente uno di quelli che ha saputo liberare sane energie. E quando si semina bene, alla fine, si raccoglie. Quindi, grazie Eugenio…

p.s.
La band di Eugenio sul palco era composta da Paolo Gambino (tastiere), Giovanni “Giuvazza” Maggiore (chitarre), Claudio Arfinengo (batteria), Marco Lamagna (basso).


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