giovedì 30 marzo 2017

recensione di "Calibro 77" dei Gang



La storia dei fratelli Severini, Marino e Sandro, da Filottrano, paese del marchigiano nelle cui campagne venne combattuta una battaglia importante nella seconda guerra mondiale, è sempre stata quella di outsider stanziati sulla linea di un confine. Tutta la loro carriera, ancorchè essere schierata eticamente e politicamente verso il mondo di coloro “volano basso”, racconta di come sia possibile continuare una battaglia artistica e morale, etica e politica, rimanendo coerenti e con la schiena dritta. Mai voltagabbana per interesse, sempre con la certezza incrollabile dei propri obbiettivi, i fratelli Severini, con il logo “The Gang”, sono riusciti in due imprese titaniche nel volgere di due anni. Con l’aiuto di un crowfoundingsenza precedenti, nel 2015 hanno presentato un album epocale, nei suoni e nelle liriche, quel “Sangue e cenere”, che ha fatto riaccendere i fari sulla storia artistica di questo gruppo. Un “riaccendere i fari” intesa come attenzione dei media perché loro, in effetti, non hanno mai abiurato alla vita del palco che in questi anni hanno “frequentato”, senza mai abbassare né la guardia né lo sguardo verso la speranza, sentendosi organici ad un percorso politicoda condividere con coloro che aveva storie da raccontare, storie da ascoltare.

Un percorso originale e dissacrante, nella tradizione comunista (si può dire…?) ma, anche, in quella di un cattolicesimo eretico che ora, con Papa Francesco, vede sbocciare i fiori e i frutti migliori seminati dal Concilio Vaticano II°. Nei loro concerti mai sono mancate, condivisibili o meno, critiche a questi tempi “moderni” che fanno vivere da esiliati nè mai sono mancate decise prese di posizione rispetto a quelle tematiche sociali e politiche che hanno attraversato i nostri ultimi venticinque anni di storia italica, bruciando più generazioni. Critiche, che hanno accompagnato canzoni, proposte in teatri o spazi all’aperto, magari in palchi improvvisati, sotto il sole o sotto la pioggia. Tematiche scomode e sempre nascoste e dimenticaterispetto ai grandi mezzi di comunicazione. Ma loro, incessantemente, come formiche hanno scavato un tunnel nel quale hanno depositato le briciole della cultura del passato per salvarle e riportarle alla luce con la loro forza, moltiplicata per cento, per metterle a disposizione a chi volesse condividerle con le esigenze del presente. Il secondo miracolo si è manifestato con l’altro crowfounding che ha portato alla luce questo nuovo lavoro, “Calibro 77”, che ha raccolto, in maniera molto originale, brani a cavallo tra il 1969 ed il 1976. Anni terribili, anni bellissimi;anni permeati di violenza, anni permeati di speranze. Anni in cui la generazione del baby boom vedeva le ultime luci di un benessere diffuso che sarebbero state spazzate via, per come conosciute, immaginate, augurate, a partire dagli anni ’90. Anni in cui le giovani generazioni si appassionavano alla politica spesso solo per sentirsi parte di una tribù, ma con la difficoltà di vivere un noi che fosse realmente collettivo e condiviso alle radici. Anni che seminavano sogni ed anni che li uccidevano. Anni in cui la mafia imprenditrice investiva in maniera strabordante nell'eroina, dove il terrorismo metteva le basi per distruggere la politica sana, in cui le nuove tecnologie iniziavano a decimare il lavoro mentre legioni di giovani venivano falcidiate da droghe assortite. “Formidabili quegli anni?” forse, ma certamente virati in maniera “scultorea” in (rosso) bianco e nero. Ma c’era la musica. 

La musica che si generò, in quegli anni: il punk, al quale i fratelli Severini si legarono avendo come vate l’indimenticato “strimpellatore” Joe Strummer ed i suoi Clash. Ma anche quella musica che, in Italia, aveva dei mostri sacri, noti e meno noti, che seminavano, a mani aperte, cultura musicale, poesia, cultura politica, arte allo stato puro e nascente (vista l’età di alcuni dei musicisti coinvolti in questo album). E “loro” sono tutti presenti, in questa raccolta strepitosa, suonata e prodotta in maniera eccellente. Gaber, Finardi, Pietrangeli, Gianco, Guccini, Lolli, De Andrè, Bennato, Manfredi, Della Mea, De Gregori. Mondi diversi, certamente, a rappresentare una storia capace, attraverso altre storie, di abbracciare quei mondi, quella società, quei ragazzi, quei sogni, quelle illusioni disseminate in quegli anni, per tenerle strette perché, al momento in cui le luci si sarebbero spente ed i sogni deposti in un cassetto, la memoria di quei giorni non scolorisse ma rimanesse impressa nella memoria del cuore. Forse è anche in questa chiave che i fratelli Severini, cresciuti a cover, come tutti i musicisti che si rispettino, hanno voluto “rinfrescare” alcune di quelle canzoni che hanno dato loro la voglia di suonare, il desiderio di comunicare, attraverso la musica, le proprie sensazioni, i desideri della loro generazione la quale, grazie alla possibilità di viaggiare, di studiare, di conoscere, ha potuto leggere la realtà meglio di quelle precedenti e di “leggersi” all’interno di se stessi per crescere e maturare orizzonti altrimenti negati. Grazie ad una produzione artistica sontuosa di Jono Manson e grazie all’apporto di musicisti di prim’ordine che hanno arricchito ogni brano dell’album, la storia che The Gang hanno inteso raccontare si dipana in un rigoglioso meltingpot di musica e liriche d’altri tempi. Meltingpotche, però,regge benissimo anche ai nostri giorni perché alcuni degli autori sono stati dei precursori nel proprio campo mentre altri hanno rinverdito gli stilemi della ballata popolare (Ivan Della Mea e Paolo Pietrangeli, ad esempio). Inizia Sulla strada, uno dei primi brani di Eugenio Finardi in cui si raccontano le gesta di una band musicale con le loro difficoltà ed emozioni del quotidiano. Un brano ancora attuale per tutti coloro che vivono (o almeno cercano di farlo…) di musica.

Suono sincopato, organo Hammond in grande spolvero, chitarre elettriche tenute al guinzaglio sono gli elementi costituenti la versione di questo inno al lavoro “on the road” del musicist. Lo sconforto di cui è intrisa una canzone quale Io ti racconto viene “sollevato” dalla bella interpretazione vocale di Marino Severini che rende le liriche di Claudio Lolli più “accettabili” dal punto di vista emotivo pur rimanendo vivo, ancora oggi per molti giovani (come allora), il dolore esistenziale che intride il brano. L’incedere del pianoforte ed il suono dell’Hammond rendono il brano musicalmente “morbido” rispetto alla crudezza delle immagini costruite dalle liriche. L’ermetismo di Cercando un altro Egitto, anche questo uno dei brani storici di Francesco De Gregori, diventa quasi una ballata popolare grazie all’incedere, originale e particolare, della musica. Un brano di difficile comprensione quando uscì (sul secondo album del cantautore romano) che, nel tempo, è diventato un classico della canzone d’autore. L’apertura del brano ha venature tex-mex con una sezione fiati che ci dà dentro colorando il brano. La presenza del flauto nelle trame del suono ben si amalgama alle venature del sax ed all’irruzione delle chitarre elettriche che trasportano ila canzone nelle strade assolate di una “fiesta” quasi latina. Scanzonata come nell’originale è la versione di Questa casa non la mollerò scritta dall’immarcescibile Ricky Gianco (insieme a Gianfranco Manfredi), uno dei mostri sacri del rock e cantautorato italiano, capace di attraversare il mondo della canzone osservandolo da vari punti di vista e rimanendo sempre coerente nella capacità di raccontare storie originali come questa.L’intro è tipicamente honkytonk, con il pianoforte che picchia duro e veloce dando una sensazione di leggerezza ad una storia dai profili di durezza ma raccontata con uno stile battagliero ed allegro. Un bel giro di pedalsteel accompagna il pianoforte a chiudere le danze…

La Canzone del Maggio immerge “i panni” nella memoria della contestazione sessantottina. Questa canzone, pubblicata nel 1973, è tratta da un canto del Maggio francese scritto da Dominique Grange il cui titolo era Chacun de vous est concernè. Una canzone piena di suggestioni e di “pensiero critico” che ha nella sua affermazione politica ed esistenziale la frase “anche se vi ritenete assolti/siete lo stesso coinvolti”, il suo eco che ancora ci rimbomba nelle orecchie. Le chitarre elettriche e l’organo Hammond sono il segno distintivo di questa bella versione di questa canzone/inno. Il suono del sax porta calore al clima complessivo della versione e l’organo Hammond accompagna verso la porta di uscita i sogni di una generazione. Sebastiano e Uguaglianza son le classiche canzoni di lotta che riprendono i canti della tradizione operaia e contadina. Nel primo caso Ivan Della Mea stigmatizza il comportamento della FIAT che licenziò 61 lavoratori accusandoli di collusione con le Brigate Rosse mentre nella seconda canzone Paolo Pietrangeli racconta della morte di un lavoratore edile. Un lavoratore, ovvero una persona trasformata in oggetto dal capitale…In Sebastiano i suoni sono in puro stile rockabilly, che non ti aspetti. Il ritmo serrato è giocato tra chitarre e pianoforte che rende il suono compatto e “felice”. E’ il brano più lungo dell’album, con oltre sei minuti, e si trascina verso un finale veloce con il pianoforte sugli scudi.  

Uguaglianza ha ritmi e tempi da ballata, con il suono scuro della chitarra tenore che rende lo scorrere del brano una sorta di viaggio nell’ignoto.  Giungono dai primi passi di un mostro sacro del rock (e molto altro) qual è, ancora oggi, Edoardo Bennato le note e le liriche di Venderò, un brano profetico rispetto alla società in cui viviamo. Parole ricche di valore che rimangono ancora oggi validi spunti di riflessione da non sottovalutare. Il suono è tipicamente country con il pianoforte che si aggrega al violino per disegnare architetture sonore inattese. Il suono è arioso e pieno di vitalità con la fisarmonica che si mette come a danzare insieme alle note del piano e la pedalsteel mentre l’organo Hammond, in sottofondo, rende il brano ancora più suggestivo e moderno. La versione di Un altro giorno è andato, di Francesco Guccini, è strepitosa. La canzone è senza tempo in quanto parte insita nell’animo di ciascuno, con i suoi grandi interrogativi e stupori sul senso della vita. Toccare brani come questo è un atto di coraggio che i fratelli Severini, con il supporto dei musicisti impegnati nell’album, assolvono con grande perizia ed afflato emotivo. La chitarra acustica e la voce di Marino Severini sono l’incipit della canzone. Il pianoforte possiede un suono languido che ben si accompagna alle armonie della pedalsteel e dell’Hammond. Il finale vede la chitarra elettrica accompagnare il pianoforte in una sorta di sussurro pieno di nostalgia. Dopo un brano così intenso ce ne vuole uno scanzonato qual è Ma non è una malattia che racconta i tormenti di una generazione che vorrebbe raggiungere il cielo ma, ahimè, non ci riesce. Un plauso al bravo Gianfranco Manfredi che scrisse pagine irriverenti e, al contempo, profonde, su quanto accadeva in quegli anni (la sua Un tranquillo festival popdi paura rappresenta e spiega, come poche altre canzoni, le pulsioni politico-esistenziali di quegli anni). L’intro è da big band con il pianoforte, la tromba e fiati assortiti a fare del loro meglio per creare un’atmosfera di gioiosa (e controllata) “caciara”, quasi in stile Dixieland. Il finale è pieno di calore con un piano che suona in stile honkytonk quasi ad addolcire l’allegria, amara, che pervade il brano. 

Buon ultima arriva I reduci di Giorgio Gaber. E’ una caso..? Forse sì ed allora l’ascoltiamo con la giusta dose di venerazione dovuta al maitre a pensèr milanese che tanto ha insegnato soprattutto negli anni ’70. Se così non è rappresenta proprio la parola fine ad un album che si ascolta in un fiato, senza rendersi conto della sua durata. Il pianoforte struggente, l’organo Hammond, le chitarre elettriche accompagnano questo grande brano gaberiano che è il perfetto sigillo ad un album davvero bello ed importante per la discografia italica. Cinquanta minuti per condensare pochi anni oppure, forse, un quarantennio…chi può dirlo…? La risposta, forse soffia nel vento…oppure nel rimpianto della perduta gioventù…?      

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