La storia dei fratelli Severini, Marino e Sandro, da
Filottrano, paese del marchigiano nelle cui campagne venne combattuta una
battaglia importante nella seconda guerra mondiale, è sempre stata quella di
outsider stanziati sulla linea di un confine. Tutta la loro carriera, ancorchè
essere schierata eticamente e politicamente verso il mondo di coloro “volano
basso”, racconta di come sia possibile continuare una battaglia artistica e
morale, etica e politica, rimanendo coerenti e con la schiena dritta. Mai
voltagabbana per interesse, sempre con la certezza incrollabile dei propri
obbiettivi, i fratelli Severini, con il logo “The Gang”, sono riusciti in due imprese titaniche nel volgere di
due anni. Con l’aiuto di un crowfoundingsenza
precedenti, nel 2015 hanno presentato un album epocale, nei suoni e nelle
liriche, quel “Sangue e cenere”, che
ha fatto riaccendere i fari sulla storia artistica di questo gruppo. Un “riaccendere
i fari” intesa come attenzione dei media perché loro, in effetti, non hanno mai
abiurato alla vita del palco che in questi anni hanno “frequentato”, senza mai
abbassare né la guardia né lo sguardo verso la speranza, sentendosi organici ad
un percorso politicoda condividere con coloro che aveva storie da raccontare,
storie da ascoltare.
Un percorso originale e dissacrante, nella tradizione
comunista (si può dire…?) ma, anche, in quella di un cattolicesimo eretico che
ora, con Papa Francesco, vede
sbocciare i fiori e i frutti migliori seminati dal Concilio Vaticano II°. Nei
loro concerti mai sono mancate, condivisibili o meno, critiche a questi tempi
“moderni” che fanno vivere da esiliati nè mai sono mancate decise prese di
posizione rispetto a quelle tematiche sociali e politiche che hanno
attraversato i nostri ultimi venticinque anni di storia italica, bruciando più
generazioni. Critiche, che hanno accompagnato canzoni, proposte in teatri o
spazi all’aperto, magari in palchi improvvisati, sotto il sole o sotto la
pioggia. Tematiche scomode e sempre nascoste e dimenticaterispetto ai grandi
mezzi di comunicazione. Ma loro, incessantemente, come formiche hanno scavato
un tunnel nel quale hanno depositato le briciole della cultura del passato per salvarle
e riportarle alla luce con la loro forza, moltiplicata per cento, per metterle
a disposizione a chi volesse condividerle con le esigenze del presente. Il
secondo miracolo si è manifestato con l’altro crowfounding che ha portato alla luce questo nuovo lavoro, “Calibro 77”, che ha raccolto, in
maniera molto originale, brani a cavallo tra il 1969 ed il 1976. Anni
terribili, anni bellissimi;anni permeati di violenza, anni permeati di
speranze. Anni in cui la generazione del baby boom vedeva le ultime luci di un benessere
diffuso che sarebbero state spazzate via, per come conosciute, immaginate,
augurate, a partire dagli anni ’90. Anni in cui le giovani generazioni si
appassionavano alla politica spesso solo per sentirsi parte di una tribù, ma
con la difficoltà di vivere un noi che fosse realmente collettivo e condiviso
alle radici. Anni che seminavano sogni ed anni che li uccidevano. Anni in cui la
mafia imprenditrice investiva in maniera strabordante nell'eroina, dove il
terrorismo metteva le basi per distruggere la politica sana, in cui le nuove
tecnologie iniziavano a decimare il lavoro mentre legioni di giovani venivano
falcidiate da droghe assortite. “Formidabili quegli anni?” forse, ma certamente
virati in maniera “scultorea” in (rosso) bianco e nero. Ma c’era la musica.
La
musica che si generò, in quegli anni: il punk,
al quale i fratelli Severini si legarono avendo come vate l’indimenticato
“strimpellatore” Joe Strummer ed i suoi
Clash. Ma anche quella musica che,
in Italia, aveva dei mostri sacri, noti e meno noti, che seminavano, a mani
aperte, cultura musicale, poesia, cultura politica, arte allo stato puro e
nascente (vista l’età di alcuni dei musicisti coinvolti in questo album). E
“loro” sono tutti presenti, in questa raccolta strepitosa, suonata e prodotta
in maniera eccellente. Gaber, Finardi,
Pietrangeli, Gianco, Guccini, Lolli, De Andrè, Bennato, Manfredi, Della Mea, De
Gregori. Mondi diversi, certamente, a rappresentare una storia capace,
attraverso altre storie, di abbracciare quei mondi, quella società, quei
ragazzi, quei sogni, quelle illusioni disseminate in quegli anni, per tenerle
strette perché, al momento in cui le luci si sarebbero spente ed i sogni
deposti in un cassetto, la memoria di quei giorni non scolorisse ma rimanesse
impressa nella memoria del cuore. Forse è anche in questa chiave che i fratelli
Severini, cresciuti a cover, come tutti i musicisti che si rispettino, hanno
voluto “rinfrescare” alcune di quelle canzoni che hanno dato loro la voglia di
suonare, il desiderio di comunicare, attraverso la musica, le proprie
sensazioni, i desideri della loro generazione la quale, grazie alla possibilità
di viaggiare, di studiare, di conoscere, ha potuto leggere la realtà meglio di
quelle precedenti e di “leggersi” all’interno di se stessi per crescere e
maturare orizzonti altrimenti negati. Grazie ad una produzione artistica sontuosa
di Jono Manson e grazie all’apporto
di musicisti di prim’ordine che hanno arricchito ogni brano dell’album, la
storia che The Gang hanno inteso raccontare si dipana in un rigoglioso meltingpot di musica e liriche d’altri
tempi. Meltingpotche, però,regge benissimo
anche ai nostri giorni perché alcuni degli autori sono stati dei precursori nel
proprio campo mentre altri hanno rinverdito gli stilemi della ballata popolare
(Ivan Della Mea e Paolo Pietrangeli,
ad esempio). Inizia Sulla strada, uno dei primi brani di Eugenio Finardi in cui si raccontano le gesta di una band musicale
con le loro difficoltà ed emozioni del quotidiano. Un brano ancora attuale per
tutti coloro che vivono (o almeno cercano di farlo…) di musica.
Suono
sincopato, organo Hammond in grande spolvero, chitarre elettriche tenute al
guinzaglio sono gli elementi costituenti la versione di questo inno al lavoro
“on the road” del musicist. Lo sconforto di cui è intrisa una canzone quale Io ti
racconto viene “sollevato” dalla bella interpretazione vocale di Marino
Severini che rende le liriche di Claudio
Lolli più “accettabili” dal punto di vista emotivo pur rimanendo vivo,
ancora oggi per molti giovani (come allora), il dolore esistenziale che intride
il brano. L’incedere del pianoforte ed il suono dell’Hammond rendono il brano
musicalmente “morbido” rispetto alla crudezza delle immagini costruite dalle
liriche. L’ermetismo di Cercando un altro Egitto, anche
questo uno dei brani storici di Francesco
De Gregori, diventa quasi una ballata popolare grazie all’incedere, originale
e particolare, della musica. Un brano di difficile comprensione quando uscì (sul
secondo album del cantautore romano) che, nel tempo, è diventato un classico
della canzone d’autore. L’apertura del brano ha venature tex-mex con una
sezione fiati che ci dà dentro colorando il brano. La presenza del flauto nelle
trame del suono ben si amalgama alle venature del sax ed all’irruzione delle
chitarre elettriche che trasportano ila canzone nelle strade assolate di una
“fiesta” quasi latina. Scanzonata come nell’originale è la versione di Questa
casa non la mollerò scritta dall’immarcescibile Ricky Gianco (insieme a Gianfranco Manfredi), uno dei mostri sacri
del rock e cantautorato italiano, capace di attraversare il mondo della canzone
osservandolo da vari punti di vista e rimanendo sempre coerente nella capacità
di raccontare storie originali come questa.L’intro è tipicamente honkytonk, con
il pianoforte che picchia duro e veloce dando una sensazione di leggerezza ad
una storia dai profili di durezza ma raccontata con uno stile battagliero ed
allegro. Un bel giro di pedalsteel accompagna il pianoforte a chiudere le
danze…
La Canzone del Maggio immerge “i panni” nella memoria della
contestazione sessantottina. Questa canzone, pubblicata nel 1973, è tratta da
un canto del Maggio francese scritto da Dominique
Grange il cui titolo era Chacun de vous est concernè. Una
canzone piena di suggestioni e di “pensiero critico” che ha nella sua
affermazione politica ed esistenziale la frase “anche se vi ritenete assolti/siete lo stesso coinvolti”, il suo eco
che ancora ci rimbomba nelle orecchie. Le chitarre elettriche e l’organo
Hammond sono il segno distintivo di questa bella versione di questa
canzone/inno. Il suono del sax porta calore al clima complessivo della versione
e l’organo Hammond accompagna verso la porta di uscita i sogni di una
generazione. Sebastiano e Uguaglianza son le classiche canzoni
di lotta che riprendono i canti della tradizione operaia e contadina. Nel primo
caso Ivan Della Mea stigmatizza il
comportamento della FIAT che licenziò 61 lavoratori accusandoli di collusione
con le Brigate Rosse mentre nella seconda canzone Paolo Pietrangeli racconta della morte di un lavoratore edile. Un
lavoratore, ovvero una persona trasformata in oggetto dal capitale…In Sebastiano i suoni sono in puro stile
rockabilly, che non ti aspetti. Il ritmo serrato è giocato tra chitarre e
pianoforte che rende il suono compatto e “felice”. E’ il brano più lungo
dell’album, con oltre sei minuti, e si trascina verso un finale veloce con il
pianoforte sugli scudi.
Uguaglianza
ha ritmi e tempi da ballata, con il suono scuro della chitarra tenore che rende
lo scorrere del brano una sorta di viaggio nell’ignoto. Giungono dai primi passi di un mostro sacro
del rock (e molto altro) qual è, ancora oggi, Edoardo Bennato le note e le liriche di Venderò, un brano profetico rispetto alla
società in cui viviamo. Parole ricche di valore che rimangono ancora oggi validi
spunti di riflessione da non sottovalutare. Il suono è tipicamente country con
il pianoforte che si aggrega al violino per disegnare architetture sonore
inattese. Il suono è arioso e pieno di vitalità con la fisarmonica che si mette
come a danzare insieme alle note del piano e la pedalsteel mentre l’organo
Hammond, in sottofondo, rende il brano ancora più suggestivo e moderno. La
versione di Un altro giorno è andato, di Francesco Guccini, è strepitosa. La canzone è senza tempo in quanto
parte insita nell’animo di ciascuno, con i suoi grandi interrogativi e stupori
sul senso della vita. Toccare brani come questo è un atto di coraggio che i
fratelli Severini, con il supporto dei musicisti impegnati nell’album,
assolvono con grande perizia ed afflato emotivo. La chitarra acustica e la voce
di Marino Severini sono l’incipit della canzone. Il pianoforte possiede un
suono languido che ben si accompagna alle armonie della pedalsteel e
dell’Hammond. Il finale vede la chitarra elettrica accompagnare il pianoforte
in una sorta di sussurro pieno di nostalgia. Dopo un brano così intenso ce ne
vuole uno scanzonato qual è Ma non è una malattia che racconta i
tormenti di una generazione che vorrebbe raggiungere il cielo ma, ahimè, non ci
riesce. Un plauso al bravo Gianfranco
Manfredi che scrisse pagine irriverenti e, al contempo, profonde, su quanto
accadeva in quegli anni (la sua Un tranquillo festival popdi paura rappresenta
e spiega, come poche altre canzoni, le pulsioni politico-esistenziali di quegli
anni). L’intro è da big band con il pianoforte, la tromba e fiati assortiti a
fare del loro meglio per creare un’atmosfera di gioiosa (e controllata)
“caciara”, quasi in stile Dixieland. Il finale è pieno di calore con un piano
che suona in stile honkytonk quasi ad addolcire l’allegria, amara, che pervade
il brano.
Buon ultima arriva I reduci di Giorgio Gaber. E’ una caso..? Forse sì ed allora l’ascoltiamo con
la giusta dose di venerazione dovuta al maitre
a pensèr milanese che tanto ha insegnato soprattutto negli anni ’70. Se
così non è rappresenta proprio la parola fine ad un album che si ascolta in un
fiato, senza rendersi conto della sua durata. Il pianoforte struggente,
l’organo Hammond, le chitarre elettriche accompagnano questo grande brano
gaberiano che è il perfetto sigillo ad un album davvero bello ed importante per
la discografia italica. Cinquanta minuti per condensare pochi anni oppure,
forse, un quarantennio…chi può dirlo…? La risposta, forse
soffia nel vento…oppure nel rimpianto della
perduta gioventù…?
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