All’inizio magari lo
guardavano come fosse un eccentrico, un personaggio un po’ bizzarro perché
cantare in dialetto, se questo non possiede una sua storia ben radicata
nell’immaginario culturale e folklorico del Paese, è un rischio davvero troppo
imponente da affrontare con cognizione di causa. Ma lui, Davide Bernasconi, in
arte Davide Van De Sfroos, non si è mai curato delle opportunità commerciali ma
ha sempre cercato di proporre un suo stile, un suo clichè artistico per il
quale il tempo gli ha dato ragione. Ha iniziato quasi in sordina, supportato da
uno zoccolo duro di fans che tutt’ora lo segue intrepido, ed è riuscito, anno
dopo anno, album dopo album, concerto dopo concerto, a dimostrare che “la
classe non è acqua” e quando il talento è forte, potente, definito, il resto è
questione di tempo e prima o poi l’attenzione arriva…E l’arte di Davide Van De
Sfroos, che si fa parola e musica, abbiamo cercato di “interpretarla” con
questa intervista a distanza sempre più ravvicinata dal concerto allo Stadio Meazza
di Milano…
Intanto sfatiamo una
“diceria” e ricordiamo che il 9 Giugno non sarà la prima volta che suonerai
allo stadio Mezza di San Siro perché già il 25 Marzo scorso…
E’ vero, suonare due canzoni da solo, con
i piedi sull’erba del campo e una chitarra in mano, è stata un’esperienza
sicuramente iniziatica; sugli spalti erano presenti ottantamila cresimandi con
famiglie, in attesa del Santo Padre. Dopo quel giorno mi sono sentito diverso e
meno agitato nell’attesa dell’evento.
E poi continuiamo
chiedendoti quale è stata la molla che ti ha spinto a prendere questa
decisione, oggettivamente “epocale” per la tua carriera e come ti stai
preparando “all’evento”…
Non sono scelte che si prendono da soli
e neanche tanto alla leggera. Mi è stata proposta dal mio staff la possibilità
di dedicarmi alla preparazione di questo evento complicato e grosso. Alcune
cose o si fanno o non si fanno, non si può rimanere a metà strada. Ho deciso di
tentare perché mi sembrava il momento giusto, dopo tanti anni e tante vicende
che hanno visto una grande schiera di persone sostenermi in tutti i modi. C’è
qualcosa di simbolico in questa scelta che va oltre il risultato finale
dell’evento. Ovviamente mi sto preparando con una grande promozione e cercando
di pubblicizzare l’evento con tutti i canali possibili.
Tu, che hai suonato
nei luoghi e spazi più disparati, non risparmiandoti anche realtà assolutamente
marginali e periferiche, come pensi di affrontare il grande palco di uno stadio
come il Meazza e con quale approccio sonoro?
Mi piacerebbe portare sul palco un
riassunto di tutta la mia storia musicale, cercando di inserire nello
spettacolo una buona parte dei brani e i diversi moduli di suono che negli anni
hanno caratterizzato gli show. Non certo effetti speciali fuori luogo, ma
semplicemente quello che mi appartiene.
Per il concerto verrà
privilegiata la formazione in formato “folk” che ultimamente ti segue oppure
saranno presenti i musicisti che, nel tempo, hanno rappresentato le varie anime
del tuo suono dal vivo?
Ci saranno le latitudini più folk, poi
una parte sostenuta dove emergerà la dinamica rock o power folk; non mancherà
l’aspetto blues e neanche quello intimistico di qualche ballad...
Sicuramente al
concerto ci saranno il Genesio, il
Cimino, Nonna Lucia, Yanez e tanti altri dei personaggi che ci hai fatto
conoscere…Come immagini che seguiranno il concerto? con quale spirito e quali
aspettative…?
Alcuni personaggi saranno presenti
nelle canzoni, ma altri saranno anche davanti al palco e si sentiranno
sicuramente parte di un cerchio che non si è mai spezzato. Nelle mie storie i
protagonisti sono sempre molto in evidenza e il flusso delle cose narrate, mi
arriva dalle persone e dal territorio stesso. Una volta che salgo sul palco,
ogni cosa ritorna in modo naturale ed emotivo alla sorgente, ovvero ai
soggetti diretti o indiretti e a tutti
coloro che mi hanno tramandato determinate vicende. Sono in moltissimi a
riconoscersi nelle trame dei testi e le canzoni a loro volta si specchiano
negli occhi di chi le segue.
Io credo che tu abbia
preso una decisione importante cioè quella di rendere visibile al grande
pubblico della musica (che frequenta gli stadi per i grandi artisti stranieri e
quelli dei grandi numeri italiani), anche un mondo artistico che qualcuno
chiama “di nicchia” e che, invece, è vasto e pieno di talenti che avrebbe
bisogno di essere conosciuto ed apprezzato in maniera più profonda e
partecipata. Tu cosa ne pensi?
Io sono cosciente del fatto che la mia
musica non passa per autostrade mediatiche, che difficilmente la senti in radio
e che non viene sorretta automaticamente da questo sistema. Tutto è sempre
avvenuto sul campo, con l’affetto e l’entusiasmo di chi la voleva tenere viva.
E’ stato così al Forum di Assago, al teatro degli Arcimboldi, nelle piazze più
disparate d’Italia e perfino a Sanremo.
Per cui, portarla in uno dei templi indiscussi dello spettacolo, significa
volerla collocare per una sera, in mezzo a tutti quelli che fino a qui l’hanno
resa possibile....e significa anche voler accendere i riflettori su di un
intero mondo di persone che io canto perché esiste ed è sempre esistito.
Artisticamente hai
fatto molti cambiamenti anche se, apparentemente, il tuo stile parrebbe uguale
nel tempo. L’ultimo tuo lavoro “Synfuniia”, ha dimostrato che le tue canzoni
sono naturalmente proponibili in modalità musicali differenti da come sono nate
ed incise. Dobbiamo aspettarci altre sorprese rispetto a nuove modalità di
proposta del tuo canzoniere e delle nuove canzoni? Questo anche in funzione
dell’imprinting musicale dei musicisti che ti hanno, nel tempo, accompagnato?
Ho sempre cercato di lasciare scorrere
la musica secondo le sonorità possibili e apparentemente contrastanti, ho
sempre rincorso la contaminazione senza perdere l’identità del nucleo portante.
Mi sono snodato e sporto dal balcone più che potevo per fare sì che l’acqua
delle mie canzoni non rimanesse stagnante. Dopo avere sperimentato anche
l’avventura sinfonica, sono ritornato alle radici e a tante latitudini
primordiali. Per questo sul palco tenterò di portare tutte le sfumature
possibili di questo lungo viaggio verso casa.
In una tua esibizione
di alcuni anni fa al Teatro Nazionale apristi la serata con un brano di Enzo
Jannacci, artista poliedrico indissolubilmente legato a Milano. Io rimasi
colpito dal tuo omaggio al Maestro e lo collegai alla tua canzone “Quaranta
pass” nella quale, a mio avviso, esprimevi, al meglio, l’insegnamento artistico
di Enzo. Le vostre rappresentano generazioni oggettivamente lontane per ovvie
ragioni di età e di “clima”. Un artista come lui cosa ha rappresentato per la
tua crescita artistica?
L’artista Enzo Jannacci, difficilmente può essere scisso dall’uomo Enzo
Jannacci. Enzo era quella cosa, quel modo, quel sound, quella rabbia e quell’ ironia. Prendere o lasciare. O ti
arrivava o non potevi capirlo fino in fondo. I suoi molti strati e il suo
apparente sberleffo con una lacrima sempre sul punto di affiorare, mi hanno
spesso messo in una condizione di emotività sperimentale. Un giorno mi strinse
la mano fortissimo e mi trasmise senza barriere di nessun tipo il suo slancio
affettivo. Fu una sensazione che raramente rincontrai e ogni volta che ho avuto
la possibilità di fare un piccolo tributo ad Enzo, quella sensazione era ancora
presente.
Con la scelta del
dialetto “laghèe” hai fatto una scelta difficile che, certamente, ha
sacrificato la tua visibilità a livello nazionale. Nel contempo, però, hai
dimostrato che si può fare poesia anche cantando in dialetto; addirittura in
uno di quelli marginali rispetto a quelli egemoni (romano e napoletano). Pur
comprendendo che alcuni concetti ed alcune “cose” si possono esprimere
solamente in “quel” dialetto, hai mai pensato di scrivere un album
completamente in italiano…?
La scelta del dialetto è stata molto
naturale e fisiologica, soprattutto in base alle cose che ho deciso da sempre
di raccontare. Non è stato qualcosa di pianificato a priori o derivato da
complesse architetture mentali. Posso dire che è capitato. Sentendo forte il
richiamo per questa lingua e questo modo di esprimere le cose, faccio fatica a
provare dubbi o pentimenti particolari. Alcune canzoni le scrivo in italiano e
non ho problemi a cercare la mia libertà di espressione anche chiedendo in
prestito altri suoni ad altre lingue o dialetti. Non ho fatto mai un contratto
con me stesso, che mi obbligasse a cantare in dialetto....ma fino ad ora non ho
mai avuto nemmeno l’esigenza di abbandonarlo totalmente per un disco in
italiano. Le due cose convivono in modo naturale da sempre.
Hai scritto canzoni
sul vento e sugli elementi della natura, sui minatori, sulla storia, sui
contrabbandieri, sui fantasmi e sul tempo. Insomma, non ti sei fatto sfuggire
niente (senza parlare dell’ambito letterario). Ora hai messo gli occhi (e le
orecchie…) su nuovi filoni originali…?
Ho sempre scritto di cose che in qualche modo mi
invadevano prepotentemente e ancora oggi resto in ascolto e attendo, come una
sentinella che si aspetta di vedere arrivare da lontano la prossima canzone. E’
un periodo in cui tendo a celebrare un ritorno, dopo avere viaggiato molto. Mi
piace riguardare le persone nelle loro semplicità a volte perdute, tornare sui
luoghi, prendere in considerazione i lavori della gente e i loro modi di
pensare, lungo il nastro incerto del tempo. Negli ultimi lavori sono andato in
profondità dentro le mie acque più oscure, facendomi anche male ogni tanto, ma
sentivo che andava fatto. Ora voglio parlare di altro e di altri.
Dalle pagine de “Il
Corriere della sera” hai anche intrapreso “lettura” della realtà delle
piccole/grandi situazioni della vita che ci circondano. Cosa ti piace di più di
questa esperienza?
L’esperienza di “Random”, i miei piccoli interventi sul corriere alla domenica, mi
permette di fare un viaggio quasi psichedelico nei miei angoli sconosciuti.
Spesso scrivo queste cose come sotto l’effetto di una dettatura interna, come
se la mia ombra mi dicesse cosa devo scrivere, bisbigliandomi all’orecchio. Ho
sempre avuto un debole per quel tipo di scrittura insolita e qui mi è stato
messo a disposizione un contenitore dove potermi sfogare. Sono grato per questa
opportunità perché mi aiuta molto.
Sei “la guida per i
viandanti” del progetto “Terra & Acqua” con il quale hai fatto conoscere
itinerari poco noti delle terre lombarde. Che cosa ti ha lasciato,
interiormente, questo percorso? Quali “segreti” hai scoperto essere davanti ai
tuoi/nostri occhi, di cui non ti eri mai accorto?
L’esperienza “Terra & Acqua” mi ha permesso di approfondire il territorio e
di scoprire interi universi che avrei ignorato, pensando di conoscere tutto
quello che, proprio perché vicino a casa, tendiamo ad osservare
superficialmente. Queste guide, oltre ad essere utili al viandante straniero,
sono importanti anche per noi, per scoprire o riscoprire casa nostra.
Per finire una
carrellata sul libro che stai leggendo, sull’album (o canzone) che ti è
piaciuto di più degli ultimi tempi e l’artista, contemporaneo, oppure lontano
nel tempo, con il quale ti sarebbe piaciuto condividere un palco, magari quello
del Meazza, per il tempo di una canzone…
Sto rileggendo alcuni racconti di Conrad che riguardano la vita in mare e
quelli di Jack London che hanno a
che fare con il Grande Nord. L’avventura, l’ignoto, il viaggio costante dentro
e fuori. Dovendomi spostare costantemente, queste letture un po’ mi aiutano a
non perdere il contatto con la parte epica del movimento. Un musicista col
quale condividerei un’esperienza è sicuramente Ry Cooder, per la sua varietà di suoni e per la poliedricità’ nello
sperimentare nuove situazioni.
L’intervista è
terminata e, rileggendola, ci si accorge di quante opzioni di lettura vengono
proposte. Segno, questo, di una storia ormai ventennale che ha saputo esprimere
una novità artistica che perdura e, disco dopo disco, dimostra di saper
crescere e di avere ancora tanti margini di miglioramento e di estensione dei
propri orizzonti. Un grande augurio, quindi, per il concerto del 9 Giugno al
quale, certamente, non mancheranno tutti color che amano la buona musica, le
liriche inconsuete ed, infine, anche poter portare lo sguardo oltre
l’orizzonte…
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