Prosegue la recensione delle
canzoni di Eugenio Finardi…
“Saluteremo il signor padrone” non l’ha scritta Finardi ma è una canzone che nasce dai canti delle mondine, ripresa
da Giovanna Daffini (che mondina lo
è stato per davvero…) e poi resa popolare dal duo Giovanna Marini-Ivan Della Mea, eppure la versione del musicista
milanese è una sorta di prototipo di quello che sarà l’approccio negli anni a
venire della canzone popolare “ricostruita” a tempo di rock (qualche anno dopo,
al concerto del Primo Maggio del 2011 “l’Eugenio” ha ripreso, in chiave rock e
sorprendendo tutti, l’”Inno di Mameli”
trasformandolo in un gioiellino sonoro…). Il piglio della canzone è gagliardo,
potente, ritmico, gioioso, combattente. Rappresenta lo sguardo di un mondo
giovanile che si appropria della tradizione e la trasforma con la ritmica del
rock senza, però, stravolgerne l’aspetto melodico. È una trasformazione ricca
di rispetto, colmo di compassione (ma, anche, denso di ribellione) per coloro
che hanno fatto una vita grama e piena di vessazioni come quella vissuta dalle
mondine nelle risaie del nord Italia. La chitarra elettrica che apre il brano si
pone come una sorta di squillo di riscossa per le rivendicazioni mai
soddisfatte. E la sezione ritmica pare voglia preparare un attacco all’arma
bianca ai padroni vessatori. E’ una ballata popolare trasformata da note
elettriche intessute con la maestria di Alberto
Camerini tra le quali si ode quasi l’eco delle “pennate” chitarristiche del
grande Pete Townsend. Canzone
potente ed amara, canzone di riscossa e di sofferenza, dove le liriche si
intrecciano ai passaggi del synth, del moog e della chitarra elettrica in una
sorta di happening in cui alla fatica si cerca di ergere il muro della speranza
perché se si riesce a salire su quel treno che sta passando proprio ora…”a casa nostra vogliamo andare…” forse
una parte della battaglia può essere vinta…Un plauso particolare ad un arrangiamento
musicale ancora oggi moderno e ricco di sfumature sonore.
Le note della chitarra elettrica
ed il suono del flauto prodotto con il synth aprono al canto di Finardi, che con voce delicata canta di
una storia (con testo in inglese) nella quale si racconta della fatica a non
essere egocentrici, ponendosi alla ricerca della capacità di imparare a
confrontarsi con gli altri, abbandonando il proprio punto di vista, la propria
visione delle cose. Sapersi aprire agli altri scoprendo, così, anche parte di
se stessi. “Taking it easy”, in
fondo è facile…prenditela con calma…Un approccio sonoro quasi alla Jackson Browne, con un suono morbido e westcoastiano, che non stona all’interno
di un album dai suoni decisi e tutto orientato al rock. Ma, in questo caso, un
rock con sapori di varie provenienze, anche generazionali. Proposta coraggiosa
e non scontata in un periodo storico-musicale in cui vi era una forte
preponderanza di suoni progressivi e di musica acustica. Ma questo intermezzo è
come una sorta di viatico prima di incamminarsi verso il termine del percorso
del primo album inciso dall’artista milanese che della ricchezza e della
varietà sonora ha riempito il suo canzoniere. Una canzone che potremmo definire
di passaggio ma che rappresenta una delle tante anima di un artista che ha
fatto della poliedricità una delle cifre principali del suo approccio all’arte.
Rischiando, ovviamente…
La chitarra acustica pare voglia
introdurre un altro brano morbido come il precedente ed invece, nonostante il
tono morbido della voce e le note quasi intime del violino di Lucio Fabbri, in “Afghanistan” si incontra un testo amaro che rappresenta una sorta
di atto d’accusa molto forte e deciso nei confronti di un mondo, quello dei
presunti pacifisti ed hippies assortiti, che sognavano e parlavano di miti e terre
lontane senza prendere coscienza di quanto, invece accadeva accanto a loro,
nella loro città, nel loro quartiere, nelle scuole, nelle strade, nelle piazze.
Finardi introduce nelle liriche una
propria e definita visione di quel momento socio-esistenziale, dove “il personale
è politico” e utilizza anche un evento di cronaca ricordando quanto accaduto il
13 Febbraio del 1975 dove, al Palalido
di Milano (ma non solo) vi fu l’assalto al palco sul quale suonava Lou Reed che dovette interrompere il
suo concerto a seguito dell’attacco selvaggio di autoriduttori e similia che,
lanciando sassi, bottiglie, spranghe e quant’altro possibile, contestavano il
promoter David Zard definendolo,
letteralmente e strumentalmente, “torturatore
nelle forze di Moshè Dayan”. Per questa ragione nel testo di Finardi la
frase “e così ieri la musica era quasi
finita ma oggi, per fortuna è ricominciata…” trova un senso compiuto e
definitivo. Un pronunciamento, questo, forte, deciso e circostanziato dai fatti
e suffragato da quanto accadeva nella strade della città e del Paese, colmo di
ricchezze e contraddizioni, di novità e di ricerca di punti di riferimento e
sicurezze. Un’accusa forte, con il dito puntato nei confronti di chi chiamata
pace l’indifferenza, chiamava serenità l’incapacità di osservare ed affrontare
la realtà. Un’accusa che si sarebbe poi ritorta contro di lui sperimentando, di
lì, a breve, anche attacchi personali. Ma questa è un'altra storia…
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