mercoledì 28 marzo 2018

continua la recensione dell'album di Eugenio Finardi "Non gettate alcun oggetto dai finestirni"


Prosegue la recensione delle canzoni di Eugenio Finardi

Saluteremo il signor padrone” non l’ha scritta Finardi ma è una canzone che nasce dai canti delle mondine, ripresa da Giovanna Daffini (che mondina lo è stato per davvero…) e poi resa popolare dal duo Giovanna Marini-Ivan Della Mea, eppure la versione del musicista milanese è una sorta di prototipo di quello che sarà l’approccio negli anni a venire della canzone popolare “ricostruita” a tempo di rock (qualche anno dopo, al concerto del Primo Maggio del 2011 “l’Eugenio” ha ripreso, in chiave rock e sorprendendo tutti, l’”Inno di Mameli” trasformandolo in un gioiellino sonoro…). Il piglio della canzone è gagliardo, potente, ritmico, gioioso, combattente. Rappresenta lo sguardo di un mondo giovanile che si appropria della tradizione e la trasforma con la ritmica del rock senza, però, stravolgerne l’aspetto melodico. È una trasformazione ricca di rispetto, colmo di compassione (ma, anche, denso di ribellione) per coloro che hanno fatto una vita grama e piena di vessazioni come quella vissuta dalle mondine nelle risaie del nord Italia. La chitarra elettrica che apre il brano si pone come una sorta di squillo di riscossa per le rivendicazioni mai soddisfatte. E la sezione ritmica pare voglia preparare un attacco all’arma bianca ai padroni vessatori. E’ una ballata popolare trasformata da note elettriche intessute con la maestria di Alberto Camerini tra le quali si ode quasi l’eco delle “pennate” chitarristiche del grande Pete Townsend. Canzone potente ed amara, canzone di riscossa e di sofferenza, dove le liriche si intrecciano ai passaggi del synth, del moog e della chitarra elettrica in una sorta di happening in cui alla fatica si cerca di ergere il muro della speranza perché se si riesce a salire su quel treno che sta passando proprio ora…”a casa nostra vogliamo andare…” forse una parte della battaglia può essere vinta…Un plauso particolare ad un arrangiamento musicale ancora oggi moderno e ricco di sfumature sonore.

Le note della chitarra elettrica ed il suono del flauto prodotto con il synth aprono al canto di Finardi, che con voce delicata canta di una storia (con testo in inglese) nella quale si racconta della fatica a non essere egocentrici, ponendosi alla ricerca della capacità di imparare a confrontarsi con gli altri, abbandonando il proprio punto di vista, la propria visione delle cose. Sapersi aprire agli altri scoprendo, così, anche parte di se stessi. “Taking it easy”, in fondo è facile…prenditela con calma…Un approccio sonoro quasi alla Jackson Browne, con un suono morbido e westcoastiano, che non stona all’interno di un album dai suoni decisi e tutto orientato al rock. Ma, in questo caso, un rock con sapori di varie provenienze, anche generazionali. Proposta coraggiosa e non scontata in un periodo storico-musicale in cui vi era una forte preponderanza di suoni progressivi e di musica acustica. Ma questo intermezzo è come una sorta di viatico prima di incamminarsi verso il termine del percorso del primo album inciso dall’artista milanese che della ricchezza e della varietà sonora ha riempito il suo canzoniere. Una canzone che potremmo definire di passaggio ma che rappresenta una delle tante anima di un artista che ha fatto della poliedricità una delle cifre principali del suo approccio all’arte. Rischiando, ovviamente…

La chitarra acustica pare voglia introdurre un altro brano morbido come il precedente ed invece, nonostante il tono morbido della voce e le note quasi intime del violino di Lucio Fabbri, in “Afghanistan” si incontra un testo amaro che rappresenta una sorta di atto d’accusa molto forte e deciso nei confronti di un mondo, quello dei presunti pacifisti ed hippies assortiti, che sognavano e parlavano di miti e terre lontane senza prendere coscienza di quanto, invece accadeva accanto a loro, nella loro città, nel loro quartiere, nelle scuole, nelle strade, nelle piazze. Finardi introduce nelle liriche una propria e definita visione di quel momento socio-esistenziale, dove “il personale è politico” e utilizza anche un evento di cronaca ricordando quanto accaduto il 13 Febbraio del 1975 dove, al Palalido di Milano (ma non solo) vi fu l’assalto al palco sul quale suonava Lou Reed che dovette interrompere il suo concerto a seguito dell’attacco selvaggio di autoriduttori e similia che, lanciando sassi, bottiglie, spranghe e quant’altro possibile, contestavano il promoter David Zard definendolo, letteralmente e strumentalmente, “torturatore nelle forze di Moshè Dayan”. Per questa ragione nel testo di Finardi la frase “e così ieri la musica era quasi finita ma oggi, per fortuna è ricominciata…” trova un senso compiuto e definitivo. Un pronunciamento, questo, forte, deciso e circostanziato dai fatti e suffragato da quanto accadeva nella strade della città e del Paese, colmo di ricchezze e contraddizioni, di novità e di ricerca di punti di riferimento e sicurezze. Un’accusa forte, con il dito puntato nei confronti di chi chiamata pace l’indifferenza, chiamava serenità l’incapacità di osservare ed affrontare la realtà. Un’accusa che si sarebbe poi ritorta contro di lui sperimentando, di lì, a breve, anche attacchi personali. Ma questa è un'altra storia…                  

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