“Il buongiorno si vede dal mattino” dice il proverbio...e prendendo tra le mani il vinile di “Non gettate alcun
oggetto dai finestrini”, l’album di esordio del giovane Eugenio Finardi, la
prima osservazione che salta agli occhi sono, innanzitutto due nomi. Il primo è
quello di Gianni Sassi, geniale uomo di arte e comunicazione ed inventore,
(insieme a Sergio Albergoni, Tony
Tasinato e Franco Mamone)
dell’etichetta CRAMPS, da subito un
punto di riferimento per la cultura musicale (e non solo ) degli anni ’70. Poi
leggiamo il nome di Cesare Monti,
fotografo e uomo di immagini di straordinario impatto visivo ed emotivo e
persona di grande umanità. Subito dopo lo sguardo scivola sul nome di Alberto Camerini, chitarrista dalle
dita magiche, di Hugh Bullen al basso e Walter
Calloni alla batteria…cioè la gioia del ritmo e delle pulsazioni di un
sound tutto milanese. A seguire un violinista che avrebbe fatto strada come Lucio Fabbri, un misterioso Frank Jonia (ovvero Franco Battiato) al sinth. Tra i partecipanti un giovanissimo Lucio Bardi che tanto bene avrebbe
suonato la sua chitarra in seguito.
Detto tutto questo viene da pensare che la
scommessa su questo ragazzo milanese era davvero ardita oppure il duo Sassi- Albergoni aveva capito tutto…? E
cioè che nelle corde di questo MilanoStatunitense
c’erano i semi artistici di due mondi musicali e culturali che, se ben gestiti,
avrebbero prodotto grandi e rigogliosi
frutti…? Con il senno di poi possiamo dire che la risposta è implicita nella
seconda domanda….Ma oltre la musica il canzoniere di Finardi è ricco di testi
troppo spesso sottovalutati (forse perché la musica è sempre “gagliarda”,
intesa, potente, mai banale e, in qualche occasioni, ne copre il significato…).
E allora proviamo a “leggere” qualcuno dei suoi testi partendo proprio dal suo
album d’esordi e dalla prima traccia…
“Se solo avessi” è fondamentalmente un corposo rock blues dove
emerge la potenza musicale che è nel DNA della musica di Finardi. L’intro è
potente e già indica una strada da intraprendere…Subito appare nelle liriche il
mito di quegli anni (ma anche dei nostri): la moto, nello specifico un Cavasachi (scritto proprio così) come elemento di attrazione verso il mondo
femminile. Il violino di Fabbri entra subito a fare comprendere di che pasta è
fatto il suo stile. Senza parlare della sezione ritmica che è davvero un
tripudio di ritmo. Il suono delle chitarre elettriche e del violino
interpretano, in maniera mirabile il sound degli anni ’70 senza correre il
rischio di scimmiottare i suoni dei cugini anglo-americani perché dentro il
Finardi sound le regole sono scritte nel talento dell’autore.
Ma nelle liriche si scoprono espressioni
interessanti di porsi di “quegli” anni. C’è l’esortazione a sollevarsi dai
luoghi comuni, a crearsi un proprio orizzonte di pensiero, a superare il
proprio narcisismo per raggiungere gli obbiettivi della vita. Il tutto condensato
in un rock davvero spettacolare per l’epoca ma che, senza timore di smentita,
nulla ha perso dello smalto originario a quaranta anni di distanza. Segno
tangibile che quei suoni e quelle liriche non erano scolpite in “quella” pietra
del tempo ma leggevano, sì, il segno dei tempi ma, nel contempo, riuscivano a
trovare un linguaggio che fotografava lo stato nascente dei giovani degli anni
’70 che, però, dal punto di vista dei bisogni e delle personalità, nulla toglie
alla lettura intergenerazionale. E per un ragazzo di ventiquattro anni non era
una preveggenza da poco…
A seguire…
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