giovedì 12 aprile 2018

Teatro degli Arcimboldi, Bob Dylan, 9 Aprile 2018


La musica si può dividere in prima e dopo Elvis, Beatles, Bob Dylan (più Jimi Hendrix). Da questi capisaldi della musica, del costume, della storia si sono aperti i varchi storici ed artistici che hanno dato vita ad autostrade di musica e di arte che hanno costellato i tempi a seguire gli anni ’60. In questi giorni Dylan è in tour per il suo percorso giro del mondo che non finisce mai (e spesso ci si chiede come faccia ad avere questa incredibile costanza alla sua ormai veneranda età) e grazie anche al suono di una band di grande livello riesce a mantenere alto il pathos nelle sale dei concerti ed il mito che gli è stato cucito addosso non appena le note di “Blowing in the wind terminarono di colpire le menti ed i cuori di milioni di giovani in quel lontano 1963. Di tutti colui che ancora calpesta i palchi di tutto il mondo sono rimasti in tre. Ma dei tre è Dylan che pare essere diventato una sorta di messaggero che vaga senza sosta sul globo toccando grandi e piccole città incurante del numero di spettatori che saranno presenti ai suoi concerti tanto né li conta né li saluta. Qualcuno direbbe che a lui basta solo contare i soldi dell’ingaggio, che è afasico nelle emozioni, che ormai è solo la copia sbiadita di quel giovane del Minnesota andato a cercare le ombre che Woody Guthrie aveva lasciato alle sue spalle. 

Ma Dylan ha dimostrato d’essere sempre a lato rispetto alla realtà. Era folk quando imperversava il rock. Divenne rock quando stava ritornando il folk. Era sempre da un'altra parte quando accadeva qualcosa che coinvolgeva i gusti di milioni di persone. Cadde dalla motocicletta nel momento giusto…aprì la Bibbia e si mise a scrivere canzoni ispirandosi ad essa quando impazza la psichedelia. Divenne cantore country quando cadevano le bombe nel Vietnam. Andò a Wight, in Gran Bretagna, ma non a Woodstock, dietro casa sua…Suonò con The Band quando questi ripercorrevano le strade della storia d’America, dimenticandosi del presente cercando il futuro nel passato. Dopo lo sguardo sulla Bibbia negli anni ’60 prese in mano il Vangelo alla fine dei ’70, inizio degli ’80, raccontando a tutti della sua conversione cristiana. Si è inventato il Never Ending Tour perché a milioni gli avevano detto che era stato troppo tempo a casa, a contemplare le gioie della famiglia. Si è inventato le bootleg serie per evidenziare quanto poco ne capisse di marketing avendo più volte dimenticato di pubblicare grandi canzoni (“Blind Willie Mc Tell). Si è inventato la distruzione del suo mito e la sua ricostruzione; la presenza sui palchi e l’invisibilità nella vita. E’ diventato Premio Nobel ma, quasi, se ne è infastidito. E’ stato decorato con la medaglia d’oro del Congresso e dopo averla ricevuta da Barak Obama gli ha dato una pacca sulla spalla e se ne è andato. Ha scritto canzoni epocali, strepitose, belle, ordinarie ma mai brutte ed anche negli album di maggiore routine ha saputo inserire qualche brano che valeva il prezzo del biglietto. Uno, nessuno, centomila avrebbe detto di lui Pirandello. Ma è valso il prezzo del concerto l’esibizione di lunedì 9 Aprile…? Si, lo è valso eccome per Dylan, in completo bianco, senza cappello ed anche un po’ ingrassato, accompagnato da un gruppo di musicisti sopraffini che lo assecondano al meglio. E lui, al pianoforte oppure al microfono in mezzo al palco, a cantare come un crooner consumato, un Frank Sinatra dalla voce cavernosa, ma intonata, pastosa e calda, ha sciorinato una serie di canzoni che ha lasciato nel silenzio la platea ammirata ed ammaliata da tanta bellezza, dal rispetto di alcuni suoi classici, rivisitati ma non strapazzati, dalla naturalezza con la quale ha cantato alcuni standard della canzone popolare americana, con il rigore e la potenza magnetica che da sempre gli viene riconosciuta. Un concerto minimalista dal punto di vista del palco, che aveva come arredo otto grandi fari ed otto piccoli, con luce calda e diffusa, che davano al tutto un alone retrò, da concerto in un palco degli anni ’40. Un concerto da salto nel tempo ma non, certamente, di salto nel buio. 

E la scaletta, inoltre è stata varia e piena di sorprese. Innanzi tutto i classici (Don’t think twice it’s all right, Highway 61 revisited, Desolation row, Simple twist of fate, Tangled up in blue) che hanno accontentato la platea degli spettatori più maturi. Classici proposti in uno stile di grande rispetto, pur con arrangiamenti originali ed intriganti. Poi brani tratti da album più recenti come Honest with me (da “Love and theft”), Tryin’ to get to heaven (da “Time out of mind); Thunder of the mountain (da “Modern times); Love sick, Dunesque whistle, Pay in blood, Early roman kings, Soon after midnight, Long and wasted years (da “Tempest”); Autumn leaves (da “Shadows in the night”); Melancony mood (da “Fallen angels”); Things have changed, Once upon a time. Come si può comprendere ci sono brani che racchiudono vari momenti dlela carrier di Dylan che, per la cronaca, dovrebbe fare un concerto lungo un mese per esaurire, forse, tutte le canzoni che ha scritto in quasi sessant’anni di carriera. Ma ai presenti al concerto quanto ascoltato è bastato ed avanzato per mantenere alta la passione verso un gigante della musica moderna. 

Ed anche quando ha cantato le canzoni “standards” del canzoniere americano ha dato un tocco unico e gradevole, atteggiandosi la microfono come una sorta di Sinatra in sedicesimo ma sapendo trarre dalla sua classe e dal suo mestiere toni di grande incanto facendo risuonare nel teatro il senso vero della malinconia, dell’autunno, del tempo che scorre e non ci si può fare niente. Interpretazione non di canzoni ma della vita nella sua interezza che hanno dato al concerto il senso della bellezza della vita ed, anche, della ineluttabilità della morte. Il concerto poteva anche finire qui oppure proseguire per altre due ore senza che alcuno fiatasse. Ma dopo l’uscita dal palco sua “Bobbyness” è rientrato suonando e cantando una bella versione di Blowing in the wind (e questo è il lato utopico, vitale, giovanile della vita) e terminando con un altrettanto bella e tirata versione di Ballad of a thin man ricordandoci, qualora ce ne fosse stato bisogno, che la vita è anche angoscia, disagio, inadeguatezza, paura della morte. E sulla moneta della vita ci sono entrambe le canzoni…Dentro il teatro ti protegge e le canzoni sono una sorta di preghiera di rassicurazione. Fuori dal teatro la pioggia scende a fiotti, la strada e buia, la notte è tarda, “e fuori, nella gelida distanza, un puma ringhiò, due cavalieri si stavano avvicinando e il vento cominciò a ululare…” (da All along the watchtower).

Nessun commento: