La musica si può dividere in
prima e dopo Elvis, Beatles, Bob Dylan (più Jimi Hendrix). Da questi
capisaldi della musica, del costume, della storia si sono aperti i varchi
storici ed artistici che hanno dato vita ad autostrade di musica e di arte che
hanno costellato i tempi a seguire gli anni ’60. In questi giorni Dylan è in
tour per il suo percorso giro del mondo che non finisce mai (e spesso ci si chiede
come faccia ad avere questa incredibile costanza alla sua ormai veneranda età)
e grazie anche al suono di una band di grande livello riesce a mantenere alto
il pathos nelle sale dei concerti ed il mito che gli è stato cucito addosso non
appena le note di “Blowing in the wind” terminarono di colpire le menti ed i
cuori di milioni di giovani in quel lontano 1963. Di tutti colui che ancora
calpesta i palchi di tutto il mondo sono rimasti in tre. Ma dei tre è Dylan che
pare essere diventato una sorta di messaggero che vaga senza sosta sul globo
toccando grandi e piccole città incurante del numero di spettatori che saranno
presenti ai suoi concerti tanto né li conta né li saluta. Qualcuno direbbe che
a lui basta solo contare i soldi dell’ingaggio, che è afasico nelle emozioni,
che ormai è solo la copia sbiadita di quel giovane del Minnesota andato a
cercare le ombre che Woody Guthrie aveva lasciato alle sue spalle.
Ma
Dylan ha dimostrato d’essere sempre a lato rispetto alla realtà. Era folk
quando imperversava il rock. Divenne rock quando stava ritornando il folk. Era
sempre da un'altra parte quando accadeva qualcosa che coinvolgeva i gusti di
milioni di persone. Cadde dalla motocicletta nel momento giusto…aprì la Bibbia
e si mise a scrivere canzoni ispirandosi ad essa quando impazza la psichedelia.
Divenne cantore country quando cadevano le bombe nel Vietnam. Andò a Wight,
in Gran Bretagna, ma non a Woodstock, dietro casa sua…Suonò con The Band
quando questi ripercorrevano le strade della storia d’America, dimenticandosi
del presente cercando il futuro nel passato. Dopo lo sguardo sulla Bibbia negli
anni ’60 prese in mano il Vangelo alla fine dei ’70, inizio degli ’80,
raccontando a tutti della sua conversione cristiana. Si è inventato il Never Ending Tour perché a milioni
gli avevano detto che era stato troppo tempo a casa, a contemplare le gioie
della famiglia. Si è inventato le bootleg serie per evidenziare quanto poco ne
capisse di marketing avendo più volte dimenticato di pubblicare grandi canzoni
(“Blind Willie Mc Tell). Si è
inventato la distruzione del suo mito e la sua ricostruzione; la presenza sui
palchi e l’invisibilità nella vita. E’ diventato Premio Nobel ma, quasi, se ne
è infastidito. E’ stato decorato con la medaglia d’oro del Congresso e dopo
averla ricevuta da Barak Obama gli ha dato una pacca sulla spalla e se
ne è andato. Ha scritto canzoni epocali, strepitose, belle, ordinarie ma mai
brutte ed anche negli album di maggiore routine ha saputo inserire qualche
brano che valeva il prezzo del biglietto. Uno, nessuno, centomila avrebbe detto
di lui Pirandello. Ma è valso il prezzo del concerto l’esibizione di lunedì 9
Aprile…? Si, lo è valso eccome per Dylan, in completo bianco, senza cappello ed
anche un po’ ingrassato, accompagnato da un gruppo di musicisti sopraffini che
lo assecondano al meglio. E lui, al pianoforte oppure al microfono in mezzo al
palco, a cantare come un crooner consumato, un Frank Sinatra dalla voce
cavernosa, ma intonata, pastosa e calda, ha sciorinato una serie di canzoni che
ha lasciato nel silenzio la platea ammirata ed ammaliata da tanta bellezza, dal
rispetto di alcuni suoi classici, rivisitati ma non strapazzati, dalla
naturalezza con la quale ha cantato alcuni standard della canzone popolare
americana, con il rigore e la potenza magnetica che da sempre gli viene
riconosciuta. Un concerto minimalista dal punto di vista del palco, che aveva
come arredo otto grandi fari ed otto piccoli, con luce calda e diffusa, che
davano al tutto un alone retrò, da concerto in un palco degli anni ’40. Un
concerto da salto nel tempo ma non, certamente, di salto nel buio.
E la
scaletta, inoltre è stata varia e piena di sorprese. Innanzi tutto i classici (Don’t think twice it’s all right, Highway 61
revisited, Desolation row, Simple twist of fate, Tangled up in blue)
che hanno accontentato la platea degli spettatori più maturi. Classici proposti
in uno stile di grande rispetto, pur con arrangiamenti originali ed intriganti.
Poi brani tratti da album più recenti come Honest with me (da “Love and
theft”), Tryin’ to get to heaven
(da “Time out of mind”); Thunder
of the mountain (da “Modern times”);
Love sick, Dunesque whistle, Pay in
blood, Early roman kings, Soon after midnight, Long and wasted years (da
“Tempest”); Autumn leaves
(da “Shadows in the night”); Melancony
mood (da “Fallen angels”); Things have changed, Once upon a time. Come si può comprendere ci
sono brani che racchiudono vari momenti dlela carrier di Dylan che, per la
cronaca, dovrebbe fare un concerto lungo un mese per esaurire, forse, tutte le
canzoni che ha scritto in quasi sessant’anni di carriera. Ma ai presenti al
concerto quanto ascoltato è bastato ed avanzato per mantenere alta la passione
verso un gigante della musica moderna.
Ed anche quando ha cantato le canzoni
“standards” del canzoniere americano ha dato un tocco unico e gradevole,
atteggiandosi la microfono come una sorta di Sinatra in sedicesimo ma sapendo
trarre dalla sua classe e dal suo mestiere toni di grande incanto facendo
risuonare nel teatro il senso vero della malinconia, dell’autunno, del tempo
che scorre e non ci si può fare niente. Interpretazione non di canzoni ma della
vita nella sua interezza che hanno dato al concerto il senso della bellezza
della vita ed, anche, della ineluttabilità della morte. Il concerto poteva
anche finire qui oppure proseguire per altre due ore senza che alcuno fiatasse.
Ma dopo l’uscita dal palco sua “Bobbyness”
è rientrato suonando e cantando una bella versione di Blowing in the wind (e questo è il lato utopico, vitale,
giovanile della vita) e terminando con un altrettanto bella e tirata versione di Ballad of a thin man
ricordandoci, qualora ce ne fosse stato bisogno, che la vita è anche angoscia,
disagio, inadeguatezza, paura della morte. E sulla moneta della vita ci sono
entrambe le canzoni…Dentro il teatro ti protegge e le canzoni sono una sorta di
preghiera di rassicurazione. Fuori dal teatro la pioggia scende a fiotti, la
strada e buia, la notte è tarda, “e
fuori, nella gelida distanza, un puma ringhiò, due cavalieri si stavano
avvicinando e il vento cominciò a ululare…” (da All along the watchtower).
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