“Tour de nocc”, turno di notte…E’ questo
il titolo che Van De Sfroos ha
voluto dare al suo nuovo tour nei teatri che sta ottenendo un grande
apprezzamento dal pubblico che partecipa caloroso come caloroso è stato
l’abbraccio di ieri sera, al Teatro Ciak
di Milano. Circondato dall’abilità strumentale del sempre bravo e passionale Angapiemage Galiano Persico, dal
preciso e tonico suono di Riccardo Luppi
ai sax tenore, soprano e flauto traverso, dalle chitarre elettriche ed
acustiche di Paolo Cazzaniga e dalle
percussioni e ritmi (incluso l’affascinante hang) di Francesco D’Auria, Van De Sfroos ha riempito il buio del teatro
sciorinando una serie di visionarie esternazioni che lo hanno fatto emergere e
somigliare, ancora una volta, agli affabulatori raccontando storie di cui
parlava sempre il grande Dario Fo,
che dalle storie del lago Maggiore ha tratto tante delle figure iconiche che
hanno animato le sue storie. E Van De Sfroos, raccogliendo l’eredità di
affabulatore del “sommo” di San Giano, si è cimentato, nei
momenti di parlato (molto affascinante quello che lo ha visto “duettare” con il
violino di Anga, che traduceva in note le indicazioni visionarie del suo
mentore…) in coraggiosi accostamenti artistici trasformando dei passaggi
letterari di grandi scrittori italici, in una sorta di musicisti capaci di
trasferire in nuovi suoni antiche parole. Così si sono affacciati sulla scena Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo, Manzoni
dimostrando che il “vecchio” può legarsi al “nuovo” senza perdere un grammo di
potenza evocativa. Altrettando simpatico la dissertazione sulla lunghezza, quasi
onirica, di alcuni nomi di grandi artisti quali, ad esempio, quello
chilometrico di Picasso. E per
finire, quasi a volersi legare alla mitica figura dello Zanni reinventato dal grammelot di Fo, Van De Sfroos ha
imbastito un racconto legato a momenti di difficoltà/benessere gastrico che ha
coinvolto il bravo Anga in un siparietto comico, ironico e carico di “grassa
leggerezza”.
Nel corso della serata tanti sono stati i momenti di visionarietà
che hanno dato nuovo lustro a canzoni che pur ascoltate cento volte riescono
sempre a coinvolgere chi le ascolta perché hanno una potenza poetica che si
nasconde dietro apparente semplicità e cantabilità. Un po’ come accade per Anga
che riesce costruire e proporre accordi e passaggi ritmico-melodici “arditi”
facendoli arrivare al pubblico quasi fossero “cose” semplici e naturali. Così,
iniziando con l’ascolto di “40 pass”, raccontata e non cantata
da parte dell’artista lagheè, si sono snodate le visioni
di Van De Sfroos, a partire dal racconto de “La nocc” che ha condotti
tutti gli spettatori nella magia di una canzone immaginifica e senza tempo qual
è “Pulenta
e galena fregia”, un brano magico e misterioso che, ogni volta
affascina a stupisce. E come portato dal vento è arrivato il mondo passato,
lontano e malinconico che ruota intorno ad un mitico “Yanez” che il grande Soriano avrebbe vestito con le parole
del titolo di un suo fortunato libro qual’è “Triste, solitario y final”,
dimostrando che la bellezza piò essere trovata anche nel rimpianto e nella
nostalgia infinita che, prima o poi, colpisce tutti coloro che hanno un’anima.
E da una tristezza si passa alle storie nascoste in un “Grand Hotel”, dove le
apparenza, alla fine, non nascondono la fatica del vivere e del condividere la
vita con chi ci sta quotidianamente accanto, nel lavoro come nella vita… Poi,
come una sorta di bonaria giungono dal palco le note de “Lo sciamano”, colui che
annusa l’aria, parla con il tempo, gioca con gli elementi, cerca il futuro
nelle pieghe del passato per superare il presente che, all’improvviso, è già
finito. “La dove non basta il mare” è una sorta di riflessione sul senso
della vita e sulla profondità della ricerca di senso al tempo che scorre e che
non possiamo fermare. “Ninna nanna del contrabbandiere”
nasconde il bisogno di coraggio e di speranza alla ricerca di una luce, anche
divina, che possa accompagnarci nelle fatiche del quotidiano.
“Madame
Falena” è sempre magica ed oscura, con una forza ed una potenza di cui
sembra, talvolta, sfuggirci la grandezza evocativa. Bussa alla porta anche uno
dei personaggi cardine di Van De Sfroos, quel “Genesio” che, certamente,
ci rappresenta e ci esorta a non abbandonare mai la speranza anche quando la
vita pare sfarinarsi intorno a noi e dentro di noi…In quei momenti in cui tutto
pare spegnersi è il momento di alzare lo sguardo e cercare nel refolo del vento
la giusta direzione. E su una barca, accompagnati e spinti da “Breva
e Tivan” è possibile ritrovarsi e tornare a sperare in un approdo
sicuro per superare le nostre tribolazioni. “I ann selvadegh del Francu”
è una rilettura in dialetto lagheè del brano “Frank wild years” chiesta
all’artista monzese dal Club Tenco. Una rilettura geniale e
discorsiva che mantiene integra tutta la dinamica del brano proiettando e
trasformando il suo incedere da murder
ballad a qualcosa di sinistramente famigliare…”La poma” è il sigillo,
anche musicalmente, ad una serata giocata in punta di piedi, senza
accelerazioni particolari ma tutta molto attenta alle sfumature ed alla
capacità di evocare, con garbo e profondità, i temi popolari ed onirici,
spirituali e totemici, racchiusi nei testi di Davide Van De Sfroos il cui
canzoniere sta iniziando a diventare davvero importante, anche dal punto di
vista numerico… Il concerto sarebbe “tecnicamente” terminato ma c’è ancora
tempo per due bis quali la “Curiera”, “La figlia del tenente” ed
“Il
paradiso dello scorpione”, brani musicalmente agli antipodi che hanno
fatto sobbalzare il pubblico che ha acclamato Van De Sfroos ed i suoi
musicisti, in maniera calorosa e sincera, dimostrando di avere apprezzato il
concerto e questa nuova formula che, ancora una volta, rende questo artista
unico nel panorama della canzone nazionale.
Le oltre due ore e mezza dello
spettacolo sono finite in un baleno, segno che quanto avvenuto sul palcoscenico
è arrivato in platea in maniera diretta e proficua, dimostrando che la
grandezza dell’arte non sta nei decibel distribuiti, dagli effetti speciali,
dal battage pubblicitario ma, soprattutto, dall’originalità di chi riesce a
dare senso all’arte osservando il mondo intorno a sé e descrivendo quello che
si vede e, soprattutto quello che non si vede, ciò che noi siamo nelle
condizioni di percepire ma non di nominale e qualificare. Davide Van De Sfroos,
da bravo Sciamano qual è, legge il tempo, il vento, la notte e sa tradurre
tutte le voci che non siamo capaci di ascoltare, ormai ovattati e nascosti dal
brusio del nulla che ruota intorno a noi. Ma per fortuna gli Sciamani vegliano
e fanno tuonare i tamburi nascosti nelle nostre anime… Un concerto sereno, un
concerto garbato, un concerto evocativo che ha visto anche l’intermezzo
musicale del virtuoso della chitarra Fabio
Lossani che ha duettato con il violino di Anga creando atmosfere di
stordente bellezza sonora e che ha visto la presenza del supporto fondamentale
di un suono percussivo ricco di sfumature che hanno accompagnato le liriche
delle canzoni. Il suono percussivo e morbido di D’Auria ha reso ancora più
evocative alcune melodie che ne sono state come assorbite e trasfigurate. E
l’uso dell’hang, strumento incredibile per il suo cromatismo sonoro ha reso
bene la parte assegnata. La chitarra elettrica di Cazzaniga ha ben lavorato in
accompagnamento colorando, con ritmi differenti, le canzoni e, talvolta, si è
trasformata diventando una chitarra basso d’accompagnamento. Anche la parte
acustica è stata ugualmente arricchente. Entrambi i musicisti, comunque, hanno
lavorato con grande levità alleggerendo il peso del suono ma “incoronando”, con
le note, i testi delle canzoni.
Di Anga abbiamo detto sia in questa che in
altre occasioni: è un grande musicista, colto e popolare al contempo, capace di
costruire ritmi indiavolati e sciamanici così come lievi e tenere, malinconiche
e nostalgiche sonorità archetipe che arrivano dirette al cuore, riuscendo a
fare entrare chi ascolta in una sorta di mondo fatato senza tempo, senza
ingressi, senza uscite, imprigionando ciascuno in una deliziosa trama sonora
senza fine. Il suono del sax e del flauto traverso del maestro Luppi è stata la
sorpresa forse di maggiore impatto della serata. Con una sonorità che ha
sciorinato memorie di Wynton Marsalis,
Jan Anderson (in certi passaggi il Van Morrison di “Spanish steps” ed in
altri il fraseggio di Ennio Morricone)
questo straordinario musicista ha riempito di nuove suggestioni il quaderno
musicale di Van De Sfroos confermando che la scelta di quest’ultimo di inserire
il suono di sax e flauto traverso è stata davvero vincente e, soprattutto,
convincente. Sono percorsi sonori nuovi quelli che l’artista
monzese/comasco/lagheè sta testando alla ricerca di una nuova veste alle sue
canzoni che, per quanto abbiamo ascoltato, hanno saputo adattarsi molto bene a
questa modalità espressiva. Il “Tour de nocc” continua su altri pachi ed altre
città. A breve, tra l’altro, è prevista l’uscita di un suo nuovo libro. Lo
leggeremo con attenzione sicuri di trovare disseminati al suo interno elementi
di riflessione che possano essere d’aiuto per riuscire ad osservare “le cose
della vita” con la giusta riflessione e profondità d’animo.
Per mettere, magari,
a tacere l’ansia per il buio che pervade il buio intorno a noi. E qualche volta
anche dentro di noi…All’uscita del teatro mi guardo intorno...Attendo “una
curiera” che mi riporti verso casa ma non la vedo all’orizzonte. Me ne
farò una ragione ma di questi tempi credo proprio che di “una curiera” che ne sia
un grande bisogno perché quello che manca ai giorni nostri è il senso di
comunità e quella che Davide Van De Sfroos ha saputo creare è proprio questa:
una comunità dove riconoscersi, dove sia possibile avere valori comuni di
riferimento e comprendere che la cultura popolare passa anche attraverso
l’ascolto di parole forse di difficile comprensione al primo ascolto ma poi
capaci di diventare un elemento di aggregazione tanto che alla fine quel dialetto
ti sembrerà di conoscerlo da sempre.
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