mercoledì 26 febbraio 2020

Comunità...


In una società sempre più intrecciata e fitta di relazioni (sulla cui qualità è spesso opportuno dubitare) quando si manifestano eventi quali quello del Corona Virus, ci si accorge che la divisione, lo stigma e la paura verso l’altro (ora non serve più essere straniero, basta un colpo di tosse o uno starnuto…), il timore del contagio e di diventare parte “del mondo dei malati” e degli “emarginati” fa saltare ogni convinzione ed ogni sicurezza e si dà vita e voce alle paure ancestrali. Parte la caccia “all’untore”, si cercano le mascherine (anche quelle inutili), si fa incetta di disinfettanti (lavarsi bene e con cura le mani con il sapone, sempre, no…?), si assaltano i supermercati (e c’è chi sorride ancora al ricordo dell’assalto ai forni ai tempi della peste seicentesca, come ben racconta Alessandro Manzoni in quel libro “summa teologica di vita” dal noto titolo…), si guarda tutti con sospetto e, magari, ci si barrica in casa…Questi timori, anche giustificati in certi luoghi (ospedali, luoghi molto affollati, caserme, uffici pubblici, scuole, etc.), ci raccontano di un Paese spaventato, di persone che fingono di essere ciò che non sono, di un benessere instabile, pronto a cadere in ogni istante a causa degli eventi. Anche di eventi che sorgono a miglia di chilometri di distanza perché oggi, davvero, il famoso battito d’ali di una farfalla a Pechino può portare danni a Milano (e non solo). Questi anni tumultuosi, dove alle incertezze della vita (precarietà nel lavoro, riscaldamento globale, difficoltà nei rapporti inter-famigliari, femminicidi, dipendenze d’ogni tipo e via dicendo…), si è cercato di dare sicurezza con l’ausilio della dipendenza da social dove ciascuno, per qualche istante, si sente il padrone del mondo e del pensiero o dove è possibile scaricare rabbia e frustrazioni con parole taglienti e, spesso malvage….

Quello che stiamo osservando è una fotografia di un tempo sospeso da studiare con molta attenzione perché, come spesso accade nella storia, vi sono momenti in cui si aprono nuove strade per comprendere il funzionamento della psicologia (o psicopatologia) delle masse oggi ancor più manipolabili di un tempo. Se penso ai piccoli paesi del sud (non solo, ma soprattutto…) in cui la radio, al tempo del fascismo era l’unico veicolo di informazione di massa (per chi l’aveva, ovviamente…) penso che ci si potesse opporre col non ascolto oppure con l’utilizzo della tradizione popolare e contadina depositaria di un sapere che esulava la nozione ma era ancestrale e, immerso nella vita della terra, poteva percepire un che di “stonato” nelle affermazioni roboanti del regime. Oggi, paradossalmente, è peggio in quanto l’informazione non esiste più: esistono le informazioni che si sovrappongono e confondono, lucidamente, chi vuole capire e, spesso, anche avere una cultura media o anche di qualità non rende immuni dal cascare nel tranello di chi diffonde, scientemente, quelle che un tempo venivano chiamate “bufale” mentre oggi l’inglesismo di “fake news” vorrebbe quasi nobilitare una bugia. Ma tale resta…Ma questa non è l’unica immagine che viene in mente…Anche la solidarietà famigliare ed amicale ha avuto la sua delegittimazione da una società che vuole essere sempre più frammentaria e spezzata dove “l’io” è il valore assoluto che “il sistema” può piegare a proprio piacimento mentre altro sforzo è necessario per piegare una comunità solidale.

Si può guarire da questa esaltazione dell’Ego? Si, è possibile, ma lo sforzo maggiore lo devono fare quelli nati negli anni ‘50 e ‘60 (ma sempre loro…?) che hanno vissuto in tempi particolari: con l’eco ed i racconti della guerra, senza averla vissuta direttamente. Che hanno visto i propri genitori fare la spesa contando le lire ed acquistando solo quello che era nella lista accuratamente preparata a casa. Che quando andava in cortile o all’oratorio cercava sempre gli amici del gruppo per giocare. Che quando arrivava l’estate era un dramma perché c’era chi andava in colonia oppure due settimane al mare e chi no e allora si “rompeva” la comunità. Che c’erano gli amici e non l’amico o l’amica e se qualcuno andava in ospedale lo si andava a trovare. Anche in troppi. Che quando qualcuno aveva bisogno c’era attenzione e nessuno moriva da solo. Comunità è una parola semplice e non magica, che necessita di attenzione e di sacrificio ma è un investimento sicuro, perché come cantavano i Beatles “l’amore che ricevi è uguale all’amore che dai…”.
Noi siamo un “animale sociale” che necessita dell’altro per vincere le nostre paure ancestrali. Abbiamo bisogno di tribù e di riti per sentirci sicuri e altruisti. Dobbiamo però imparare ad evitare di considerare le altre tribù ostili e comprendere che, come recitava il grande Thomas Elliotla paura sta in una manciata di polvere” e che quindi o ci salveremo insieme oppure, non ci salveremo…                                      

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