domenica 7 giugno 2020

Coronavirus...Parole smarrite...


E ora che fare? Riaprire la vita ordinaria lunedì? Mantenere chiuso qualche altro giorno…? I fatti raccontano che esistono luoghi focolai dell’influenza che sono stati individuati e circoscritti. Sono monitorati e tenuti sotto controllo. Compito delle autorità è vigilare che nessuno interrompa la quarantena, i medici ed i paramedici devono fare il loro lavoro con tranquillità e professionalità, chi deve operare nella sanificazione degli ambienti, in particolare gli ospedali deve essere verificato nelle sue reali capacità e certificazioni, i cittadini che ritengono di essere stati in zone a rischio o a contatto con persone che provengono da quelle zone dovrebbero operare con prudenza e, magari, farsi visitare, che deve prendere decisioni che stia meno sui social o in televisione e maggiormente laddove la presenza operativa è richiesta al fine di prendere le migliori decisioni per tutti. Oggi che tutti sono diventati virologi oppure epidemiologi (come se fosse questione di fare una formazione della Nazionale…) rimangono le decisioni e le riflessioni a scandire il tempo. Intanto in pochi si sono accorti che negli ultimi anni sono aumentate le bronchiti e le polmoniti. Probabilmente non aiutano né il clima né l’inquinamento così come i virus aggressivi per le vie aeree. E i virus, come noto, si modificano nella loro struttura interna e quando la mutazione è più rapida del previsto, come in questo, caso, diventa più difficile trovare soluzioni. Poi ci sono i banali comportamenti umani che, quando scadono in maleducazione (starnutire in pubblico, evitare di curarsi, prendere antibiotici “ad minchiam”, non lavarsi le mani e via dicendo) il risultato, è inevitabile.
Una buona igiene, come avevano scoperto i grandi scienziati della medicina di fine ottocento/primi del novecento, evita un sacco di guai…A volte anche il banale areare bene i locali in cui si vive o si lavora evita problemi (anche se oggi negli uffici vige la regola di facciate continue senza aperture e condizionamento a ciclo chiuso. Il resto, se non si opera con adeguate sanificazioni, lo possiamo immaginare…La legionellosi da aria condizionata è nota dagli anni ’70). Poi c’è la capacità del servizio sanitario di ospitare un numero adeguato di pazienti in terapia intensiva. Come abbiamo visto il problema maggiore non sono le vittime (che, per altro, avevano già in corso, purtroppo, patologie significative), bensì la possibile emergenza di posti letti per pazienti gravi. Questo il vero spauracchio del servizio sanitario nazionale e delle Regioni a rischio che, pur nelle loro capacità e qualità, sanno di non poter reggere se il problema aumenta in quantità e gravità (poi andremo a chiederci come mai si parla solo di sanità pubblica e non di quella dei privati. Uno dei misteri del nostro Paese…). Abbiamo ora anche il problema dello stigma dei Paesi esteri che ci rimbalzano quasi fossimo un Paese di appestati e questo anche grazie ai titoli di alcuni quotidiani che non hanno badato a caratteri per terrorizzare i loro (pochi) lettori. E all’estero basta il titolo…Purtroppo (o per fortuna) questa reazione ci fa capire che quando si adottano mentalità e pensieri di grettezza alla fine, prima o poi, il rimbalzo del contrappasso arriva. Che questa lezione ci renda consapevoli che se qualcuno “vive” un guaio, costante oppure momentaneo, più che lo stigma e l’ostracismo può fare la condivisione ragionevole e la partecipazione attiva a risolverlo vista la interconnessione ormai assoluta tra le genti che popolano il Pianeta (per quanto ancora…?).
Per penultimo (lasciando da parte lo sciacallaggio dei prodotti razziati e rivenduti a dieci volte il valore, a coloro che truffano gli anziani, a chi immette nella rete notizie fase e terroristiche…tute condizioni che meritano giuste, dure, irrevocabili punizioni), una riflessione va fatta circa coloro che, presi da immotivato panico, hanno “svaligiato” i supermercati manco fosse in arrivo la peste nera o la guerra nucleare rendendo evidente la fragilità psichica delle persone “normali” che ora hanno riempito casa, cantina e freezer di prodotti senza nessun reale bisogno ma spinti da un istinto di sopravvivenza che nemmeno in tempo di guerra (che i nostri genitori e nonni hanno vissuto sulla pelle…).
Per ultimo…il ritorno alla normalità. Perché il nostro disgraziato Paese non ha bisogno di turisti in fuga, neanche di fabbriche chiuse, neppure di metropolitane e mezzi pubblici vuoti (uno o due giorni va bene, si respira…ma poi), nemmeno di eccessivo telelavoro che potrebbe, alla fine, ritorcersi non tanto contro i lavoratori che un lavoro ce l’hanno bensì contro coloro che tali vorrebbero diventare. Inoltre, nella vita di lavoro “esterna”, si muovono varie realtà oggettive che danno lavoro: gli uffici nell’affittanza e manutenzione, i locali in cui si mangia, le edicole (già in difficoltà di loro…) che il passaggio di persone, e via dicendo…E senza dimenticare tutti i luoghi pubblici e della cultura, i luoghi del divertimento, i musei…La nostra economia è purtroppo molto precaria e quello che si deve evitare è di renderla ancora più instabile. Al di là della polemica politica (veniamo da un’elezione che ha dato vita a due Governi di differente impostazione…), con un PIL in difficoltà, con le crisi produttive (Ilva su tutte…), con la precarietà del lavoro…Insomma, sappiamo tutti cosa non va…e sappiamo che non possiamo permetterci di fare errori. Quindi si osservi bene lo sviluppo del virus (ma un “banale” algoritmo che ne misuri la diffusione e lo sviluppo futuro non l’ha ancora inventato nessun matematico…?) e si prendano le opportune misure di studio, contenimento, prevenzione e cura per fare ritornare il Paese e, soprattutto, Milano, alla vita “ordinaria” utilizzando, però, questa situazione come occasione per rivedere la scala di valori complessiva con cui misuriamo lo standard di vita complessiva, i valori della vita, l’importanza della socialità, della condivisione, della solidarietà. E per ultimo comprendere che i valori su cui oggi poggia l’economia di tutti i Paesi non funziona e se è sufficiente un virus a mettere in crisi il Pianeta significa che dobbiamo cambiare tutto. Questi sono avvisi, campanelli di allarme, indicazioni perentori. Se non saremo in grado di ascoltarli arriveranno i “messaggeri di sventura” ad annunciare l’apertura dei sigilli del Libro…

In una società sempre più intrecciata e fitta di relazioni (sulla cui qualità è spesso opportuno dubitare) quando si manifestano eventi quali quello del Corona Virus, ci si accorge che la divisione, lo stigma e la paura verso l’altro (ora non serve più essere straniero, basta un colpo di tosse o uno starnuto…), il timore del contagio e di diventare parte “del mondo dei malati” e degli “emarginati” fa saltare ogni convinzione ed ogni sicurezza e si dà vita e voce alle paure ancestrali. Parte la caccia “all’untore”, si cercano le mascherine (anche quelle inutili), si fa incetta di disinfettanti (lavarsi bene e con cura le mani con il sapone, sempre, no…?), si assaltano i supermercati (e c’è chi sorride ancora al ricordo dell’assalto ai forni ai tempi della peste seicentesca, come ben racconta Alessandro Manzoni in quel libro “summa teologica di vita” dal noto titolo…), si guarda tutti con sospetto e, magari, ci si barrica in casa…Questi timori, anche giustificati in certi luoghi (ospedali, luoghi molto affollati, caserme, uffici pubblici, scuole, etc.), ci raccontano di un Paese spaventato, di persone che fingono di essere ciò che non sono, di un benessere instabile, pronto a cadere in ogni istante a causa degli eventi. Anche di eventi che sorgono a miglia di chilometri di distanza perché oggi, davvero, il famoso battito d’ali di una farfalla a Pechino può portare danni a Milano (e non solo). Questi anni tumultuosi, dove alle incertezze della vita (precarietà nel lavoro, riscaldamento globale, difficoltà nei rapporti inter-famigliari, femminicidi, dipendenze d’ogni tipo e via dicendo…), si è cercato di dare sicurezza con l’ausilio della dipendenza da social dove ciascuno, per qualche istante, si sente il padrone del mondo e del pensiero o dove è possibile scaricare rabbia e frustrazioni con parole taglienti e, spesso malvage….
Quello che stiamo osservando è una fotografia di un tempo sospeso da studiare con molta attenzione perché, come spesso accade nella storia, vi sono momenti in cui si aprono nuove strade per comprendere il funzionamento della psicologia (o psicopatologia) delle masse oggi ancor più manipolabili di un tempo. Se penso ai piccoli paesi del sud (non solo, ma soprattutto…) in cui la radio, al tempo del fascismo era l’unico veicolo di informazione di massa (per chi l’aveva, ovviamente…) penso che ci si potesse opporre col non ascolto oppure con l’utilizzo della tradizione popolare e contadina depositaria di un sapere che esulava la nozione ma era ancestrale e, immerso nella vita della terra, poteva percepire un che di “stonato” nelle affermazioni roboanti del regime. Oggi, paradossalmente, è peggio in quanto l’informazione non esiste più: esistono le informazioni che si sovrappongono e confondono, lucidamente, chi vuole capire e, spesso, anche avere una cultura media o anche di qualità non rende immuni dal cascare nel tranello di chi diffonde, scientemente, quelle che un tempo venivano chiamate “bufale” mentre oggi l’inglesismo di “fake news” vorrebbe quasi nobilitare una bugia. Ma tale resta…Ma questa non è l’unica immagine che viene in mente…Anche la solidarietà famigliare ed amicale ha avuto la sua delegittimazione da una società che vuole essere sempre più frammentaria e spezzata dove “l’io” è il valore assoluto che “il sistema” può piegare a proprio piacimento mentre altro sforzo è necessario per piegare una comunità solidale.
Si può guarire da questa esaltazione dell’Ego? Si, è possibile, ma lo sforzo maggiore lo devono fare quelli nati negli anni ‘50 e ‘60 (ma sempre loro…?) che hanno vissuto in tempi particolari: con l’eco ed i racconti della guerra, senza averla vissuta direttamente. Che hanno visto i propri genitori fare la spesa contando le lire ed acquistando solo quello che era nella lista accuratamente preparata a casa. Che quando andava in cortile o all’oratorio cercava sempre gli amici del gruppo per giocare. Che quando arrivava l’estate era un dramma perché c’era chi andava in colonia oppure due settimane al mare e chi no e allora si “rompeva” la comunità. Che c’erano gli amici e non l’amico o l’amica e se qualcuno andava in ospedale lo si andava a trovare. Anche in troppi. Che quando qualcuno aveva bisogno c’era attenzione e nessuno moriva da solo. Comunità è una parola semplice e non magica, che necessita di attenzione e di sacrificio ma è un investimento sicuro, perché come cantavano i Beatles “l’amore che ricevi è uguale all’amore che dai…”.
Noi siamo un “animale sociale” che necessita dell’altro per vincere le nostre paure ancestrali. Abbiamo bisogno di tribù e di riti per sentirci sicuri e altruisti. Dobbiamo però imparare ad evitare di considerare le altre tribù ostili e comprendere che, come recitava il grande Thomas Elliot “la paura sta in una manciata di polvere” e che quindi o ci salveremo insieme oppure, non ci salveremo…

Quale riflessione per quanto sa accadendo? Innanzitutto la certezza che quando si fa il proprio dovere i guai si attenuano. E qui il pensiero va alla mala gestione iniziale da parte delle autorità cinesi che, come sempre accade nei regimi autoritari i problemi non esistono e i treni arrivano sempre in orario. Se si fosse dato ascolto al medico che per primo alzò la mano segnalando seri problemi sanitari nel suo ospedale probabilmente staremmo raccontando un altra storia. Ma nei regimi non si può disturbare il manovratore...
Ora il virus, dopo aver mietuto migliaia di vittime, si è spostato (e come pensare che non sarebbe avvenuto...?) con le differenti problematiche legate alle consuetudini dei vari Paesi. Sia sanitarie che di mentalità. Quello che stiamo vivendo, oltre che un problema sanitario, è anche un problema sociale ed economico. Ma, forse, anche di una differente consapevolezza rispetto alla difficoltà umana nel guidare, in maniera razionale e non emotiva, le situazioni di pericolo.
Lo sguardo alle immagini delle code nei supermercati e agli scaffali "depredati" pone il quesito della psicopatologia labile delle masse rispetto a pericoli o presunti tali di quarantene e penuria (ipotetica e non suffragata dalla realtà) di beni di prima necessità. Nasce una riflessione: e chi è anziano e solo e non può fare la spesa in quantità cosa farà? E agli "svaligiatori" nulla interessa degli altri che, magari, abitano a fianco? E' a società del consumo e dell'eccesso che non trova pace e si arrotola su se stessa rendendo le persone incapaci di sentirsi parte di una comunità dove, come accadeva un tempo, si era capaci di condividere pur nella difficoltà e povertà. Ma ora, non più. La società dell'abbondanza a travolto remore vergogne e quello che conta è accumulare. Anche se poi molto si butterà via. e vedere le decine i bottiglie d'acqua riempire i carrelli fa pensare...che qualcuno si sia accorto che in casa manca l'acqua, come ancora nei primi decenni del '900 nelle aree rurali..?
Il virus più pericoloso è dentro di noi..è quello che non ci fa comprendere la realtà, che ci ossessiona con la paura, che ci rende "lupi tra gli uomini". Il virus più pericoloso è quello che rende tutti nemici (basta osservare gli sguardi sui mezzi pubblici...), che rende alcuni sciacalli verso l persone anziane e deboli con tentativi di truffe, che alzano i prezzi in maniera immotivata se non il desiderio del guadagno. Anche il giorno dell'Apocalisse ci sarà chi continuerà a imbrogliare ritenendosi eterno ed immortale...
Milano, la grande città, la città dei record e dell'innovazione, sta vivendo un momento difficile. Un momento inatteso e estraneo. La peste l'ha vissuta secoli fa ed ancora nel Tempio di San Sebastiano ogni anno si celebra una Messa in ricordo così come la presenza di vari cippi ricorda i luoghi delle processioni di intercessione. Milano ha già subito tanti momenti di "ansia" ma l'ha sempre salvata la capacità di mantenere l'unità di intenti tra "diversi" consapevoli che ci si salva insieme e non da soli. Si guarisce insieme a chi cura e non abbandona gli altri al proprio destino. Alcune critiche, alcune aspre altre sagge, sono piovute ai responsabili delle decisioni prese. Non so dare un'opinione che abbia valenza oggettiva. Vedremo alla fine di questa settimana come si è evoluta la situazione. Certo che pare una sorta di beffa (o di induzione alla riflessione) che la riduzione della vita sociale sia intervenuta proprio nella settimana "più allegra" dell'ano. Un caso oppure un segnale perchè si possa, tutti, avere miglior tempo per riflettere sul senso vero della vita....?
Per ora l'augurio che il vento passi rapido, che gli operatori sanitari siano aiutati a gestire al meglio le emergenze e che non li si lodi solo quando servono, che i virologi siano capaci di dare responsi quanto più unitari senza dividersi in maniera "evidente" disorientando l'opinione pubblica, che la politica sia capace di comprendere e decidere se si è in posizione di responsabilità e di criticare in maniera costruttiva e non "sciacallante" se si è all'opposizione...Perchè la ruota gira...E, soprattutto, ricordarsi che non si è eterni nè onnipotenti e che un microscopico elemento può ricordarcelo in ogni istante della nostra vita...

Il tempo assente, il tempo immobile, il tempo che non si espande, il tempo che è sempre simile a se stesso. Ci si guarda intorno, ci si guarda dentro, ci si accorge che esiste una solitudine vera ed una che viene indotta dall’interno di se stessi. Quanto stiamo vivendo è un fatto epocale che deve aiutarci a renderci migliori, diversi, nuovi. Questo virus è arrivato come una bomba nucleare all’interno del nostro mondo che deve ricercare non sono gli anticorpi per superare la malattia ma, soprattutto, gli anticorpi per cambiare prospettiva nella visione del mondo, della vita, dei rapporti sociali. Come tutti i virus è invisibile e, quindi, subdolo. Sta distruggendo vite umane, vita famigliare, salute nel lungo periodo per gli anziani contagiati e sopravvissuti. Sta interrompendo consuetudini e vita sociale. Siamo nella dimensione della negazione e della paura, reale o immotivata. La negazione di chi pensa di essere immortale e che non si ammalerà costringendo, poi, in caso infausto, altre persone a rischiare la vita per lui. Dall’altra parte vi è la dimensione di chi viene annichilito, nel suo profondo, da una paura eccessiva che lascerà profondi segni dentro di sé.
Oggi siamo nella condizione di osservare che la normalità non esiste più. Chi ha visto un parente, un amico salire, magari su un’ambulanza, e poi non ha più potuto vederlo nemmeno nella morte ne rimarrà turbato per sempre. Chi, credente, non ha potuto avere un funerale religioso lascerà a chi rimane una sorta di senso di colpa per non aver potuto provvedere. Sono tempi duri, certamente, ma non devono essere tempi inutili perché altrimenti significherebbe non solo non aver compreso una lezione della Storia ma, soprattutto, non saremo stati in grado di utilizzare un grande dolore affinchè il futuro non sia ugualmente tetro come quanto oggi stiamo vivendo. Questo significa ripensare la sanità in maniera integrale su tutto il nostro territorio, significa mettere a fuoco nuove modalità di lavoro, significa mettere a frutto competenze scientifiche a livello mondiale per prevenire nuove situazioni di contagio che, certamente, arriveranno. Perché è chiaro che Sars, Mers e Cov-19 sono figlie di mutazioni all’interno del pianeta dei virus che sono organismi organici che lottano per sopravvivere e noi, esseri viventi, siamo i suoi veicoli ed elementi di sopravvivenza. Questa è la realtà e se non saremo pronti (e ora abbiamo dimostrato, tutti, di non essere preparati) rischieremo di soccombere data la ormai potente urbanizzazione e la mobilità assoluta che “governa” le nostre vite.
I virus si salvano e prosperano se cambiano in fretta. Noi dobbiamo essere più veloci: cambiare, modificare stili di vita, riprogrammare il modello di sviluppo, mettendo in fila le priorità in quanto, come la realtà sta dimostrando, quelle attualmente vigenti non sono né le migliori né quelle che fanno progredire l’umanità intesa non come nucleo economico (basti pensare alla redistribuzione percentuale della ricchezza) bensì come elemento di costruzione di una dinamica di relazione che sappia superare lo stato attuale e reale delle cose. Questo sistema non funziona più. Questo era chiaro da tempo ma nonostante gli allarmi (vedi Greta…) ma chi governa (ma non solo vista la continua presenza di persone per le strade, senza motivi reali…), le grandi corporation economiche, la struttura economica mondiale, non ha mai posto il tema di cambio di modello. Tutti ad inseguire quello che pare l’imperativo di fondo: arricchirsi. Chi tantissimo, chi tanto, chi il giusto, chi poco, chi niente…Questa la realtà.
Ora che siamo di fronte ad una svolta epocale, che il mondo, il nostro Paese, la nostra Lombardia (poi gli scienziati dovranno aiutarci a capire le ragioni della potente virulenza del virus nel nostro Paese…) sono sotto stress in ogni senso, ora dobbiamo riflettere e fare riflettere. Dopo non potrà, non dovrà più essere come prima. Noi stessi non dovremo più essere come prima. Dovremo reimparare ad apprezzare le “cose minime”, le cose scontate come la vista di un famigliare, l’incontro con un amico, l’abbraccio con una persona care, il bere un caffè in compagnia, l’andare al cinema o ad un concerto. Anche poter andare ad un funerale, perché no…? La Storia ci sta insegnando, con vittime, privazioni e paure che il cambiamento è necessario, è vitale, è il futuro…

Scriveva la grande Flannery O’Connor, narratrice americana ispiratrice di alcuni brani di Bruce Springsteen, che “il mistero crea un grave imbarazzo per la mentalità moderna”. La O’Connor non è state un’autrice prolifica e nemmeno di facile lettura ma, comunque, fortemente intrisa di realismo e di profonda commozione nel leggere le storie degli uomini e delle donne “gettate” sul palcoscenico del mondo. Che è violento, che è “malato” ma che, comunque, può essere, secondo la sua visione del mondo, redento. Ma questa redenzione può mettersi in moto solo se ci si ritrova a dialogare con il mistero, se si ha la capacità di fare silenzio nel proprio intorno accorgendoci che il mondo e la storia hanno bisogno di silenzio, di mistero e ciascuno di noi di consapevolezza di sé e dell’altro che ci sta vicino, che ci circonda che, spesso, ci tormenta. Il silenzio è una dimensione persa che dobbiamo recuperare prima che se ne perda la memoria. Il silenzio è qualcosa che proviene da altre dimensioni, che ci avvolge, che ci può anche inquietare ma che, nel contempo, può affascinarci. Perché è misterioso e, quasi sempre, sconosciuto. Nel silenzio, dal distacco dall’immediato e dalle sue presunte priorità, è possibile trovare brandelli della propria essenza e, anche, del proprio passato attraverso cui è possibile risvegliare il senso della propria storia. Siamo immersi dal rumore, dai suoni, dalle parole, dalle immagini, dalla fruizione, anche non voluta, di mondi che entrano in noi senza essere stati invitati. Abbassare la luce, abbassare il suono, abbassare il numero di parole, abbassare la volontà di “potenza” che alberga in ciascuno di noi può essere la chiave per ritrovarci e ritrovare gli altri, con i loro difetti, bisogni, solitudini, inquietudini. Le stesse che ciascuno di noi si porta dentro, cercando, però, di trovare il modo di condividerle per avere un fardello emotivo meno precario. In questi giorni si parla molto della necessità di essere solidali. Ma la solidarietà nasce dentro ciascuno come gesto libero e senza la ricerca di riconoscimenti. Ma nulla nasce dal caso o dalla innata spontaneità (salvo in casi rari…) ma da un percorso di vita che ti mette di fronte al fatto che non esistiamo per noi stessi ma perché intorno a noi ci sono altre persone e quando si rompe il tabù “tribale” di cui l’uomo è prigioniero, allora arriva la consapevolezza che, come scriveva il poeta John Donne in “Nessun uomo è un’isola”, “quello che faccio viene fatto per gli altri, con loro e da loro.
Quello che essi fanno è fatto in me, da me e per me. Ma ad ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che egli ha nella vita dell’intero corpo”. La traduzione è molto semplice: siamo interconnessi, tutti, e ciò che viene compiuto in favore di qualcuno (o contro qualcuno) alla fine ritorna. In positività e costruzione, in negatività e distruzione. Allora la mancanza di parole, il silenzio, l’immergersi in se stessi può diventare atto di generosità per gli altri perché mette a tacere le parti “prepotenti ed egoistiche” di ciascuno di noi per comprendere che siamo parte di una grande unità e che, non dimentichiamolo, il nostro è un tempo limitato e finito e noi non ne siamo padroni. Per questo, proprio in momenti così duri e pesanti, dobbiamo aprire le porte al mistero perché ci aiuti a guardare la vita con uno sguardo più ampio, che sappia abbracciare, tempo, spazio, persone ed eventi in maniera più ampia di quanto, invece, spesso accade, quasi che ci autolimitassimo, per chissà quale ragione, nello sguardo verso l’infinito, accettando ed accontentandoci di quello che il quotidiano e l’andamento del mondo ci propone e a cui non sappiamo rinunciare, anche se al ribasso rispetto alle possibilità.
Ma, come scrive la O’Connor, se ci lasciamo prendere, afferrare e soffocare dalla modernità non avremo più le chiavi per comprendere il mistero. Oggi migliaia di medici, infermieri, operatori di varia natura e competenze sfidano la morte incontrando il mistero del “regno di mezzo”, del passaggio dalla porta che dalla vita porta alla morte (“La porta dello spavento supremo”, come Battiato intitolò un suo brano). Ma se non si è consapevoli di questo mistero, del secondo mistero più importante dopo quello della vita, anche il più grande gesto di abnegazione “rischia” di rimanere con i piedi fortemente legati alla “materialità” dell’esistere senza comprendere fino in fondo che le radici sono solide soprattutto quando si trasformano in ali…

Invisibile…Oggi quello che ci tormenta ed uccide è invisibile. Il nostro mondo che del reale ha fatto la sua bandiera, il suo punto di riferimento, la sua ragion d’essere, la separazione del vero dal falso è ora soggiogata dall’invisibile. Certo, a qualcuno questo invisibile è noto. Agli scienziati, medici, virologi, epidemiologi. E’ il loro lavoro e ci sono abituati. Ma a noi, alla gente comune, non vedere il nemico, il non avere coscienza della sua posizione, il non poter essere messi sul chi va là rilevandone la presenza…ecco, questa forma di invisibilità ci costringe e ritornare al tempo dell’infanzia dove la conoscenza era limitata e dove, magari, qualcuno ci parlava di  ombre oscure ci osservavano invisibili. Poi siamo cresciuti a abbiamo compreso che esiste solo ciò che è tangibile, che possiamo vedere, con cui poter avere una “relazione”, con cui incontrarci, scontrarci, combattere e, magari, soccombere. Ma che si poteva vedere…Ora il senso dell’invisibile ci ha nuovamente preso di sorpresa…Nuovamente? Certo, perché nel secolo scorso abbiamo incontrato l’influenza spagnola che ha fatto milioni e milioni di morti. Quella asiatica, che ne ha fatti migliaia. E prima ancora la peste, flagello dell’Europa medioevale e post Rinascimento. E nel nuovo secolo l’aviaria, la Sars, la Mers, Ebola…Tutti nemici invisibili (ai più…) che hanno contribuito a spaventarci fino nella nostra delle più intime convinzioni circa l’inarrestabile vittoria del progresso sulle malattie e sulle paure ancestrali. Ma le paure non se ne vanno per decreto, non ci abbandonano se qualcuno decide che, comunque, “tutto andrà bene”. Le paure sono nel nostro DNA e non bisogna esorcizzarle bensì combattere l’invisibile che ci opprime, sia che ne siamo colpiti sia che a cadere siano altri. Perché è il terrore che capiti a noi a destabilizzarci…Alcuni medici ed epidemiologi in tempi non sospetti, anni 2018/2019, avevano redatto uno studio che riportava “interessanti” prospettive riguardanti le future (anzi, prossime) pandemie influenzali. In pratica il Covid-19 era stato già avvistato anche se non lo si conosceva. Grazie al lavoro oscuro e non gratificato di alcuni scienziati, si era prevista questa pandemia (nelle analisi degli algoritmi sarebbe stata più disastrosa…) ma nessuno ha deciso di prevenire. Anzi, gli “amici” Cinesi, all’inizio hanno messo il coperchio alla pentola in ebollizione sanzionando e punendo chi aveva lanciato l’allarme…Ora vengono in nostro aiuto e li ringrazieremo a tempo debito, però…non è questo il modo migliore per essere parte di un mondo globalizzato che vedrà altre di queste condizioni per almeno cinque validi motivi: l’incremento dell’inquinamento che riduce le capacità polmonari e veicola meglio i virus, per l’uso eccessivo degli antibiotici, lo stress del sistema nervoso che si ritorce sul sistema immunitario, sul disboscamento che sempre più mette a contatto le specie animali selvagge con l’uomo aumentando il rischio del salto di specie, l’elevato costo degli interventi economici per fare fronte all’emergenza del momento. Solo cinque i motivi per il momento. Ma altri sono dietro l’angolo, invisibili ai nostri occhi ma che diventeranno evidenti, nelle risultanze (nefaste) al momento opportuno. Questo che stiamo vivendo è un tempo irrisolto: ora siamo in mezzo ad un guado e non sappiamo che cosa troveremo sotto i nostri piedi. Toccheremo sempre il terreno…? Riusciremo a combattere la corrente nel caso dovessimo nuotare…? La temperatura dell’acqua non sarà troppo fredda…? Chi troveremo dall’altra parte se ci arriveremo…? Ci guardiamo intorno e vediamo gente impaurita, smarrita. Ma anche “follemente” convinta che siamo nel tempo migliore per cominciare a vivere senza condizionamenti; salvo poi sapere che il momento magico è durato il tempo di una risata sbilenca. L’invisibile è accanto a noi e sappiamo che se ci tocca può farci molto male. Dobbiamo trovarlo e renderlo visibile, attaccarlo e distruggerlo perché noi si possa rimaner visibili. Ancora per il giusto tempo….

Finzione.. Potrebbe essere tutta un’immensa finzione. Una sorta di Truman Show all’ennesima potenza…Oppure, come nel film “L’invasione degli ultra corpi”, una specie aliena si sta impossessando del Pianeta grazie a questo virus nuovo e sterminatore…Oppure si tratta di un esperimento per la limitazione della popolazione come ben descritto nel libro “Inferno”, di Dan Brown…Potrebbe essere tutta una finzione e nessun virus è sbucato dal corpo di un pipistrello…nessuno si è accidentalmente contagiato in Cina…No, è tutta una finzione e prima o poi lo scopriremo. La terra è piatta, i vaccini fanno male, l’uomo non è mai stato sulla luna Elvis Presley è ancora vivo e i treni, un tempo, arrivavano in orario…L’armamentario dei novelli Asimov o Dick è sempre ricco di alternative, di possibilità, di sguardi obliqui nei confronti della realtà e della Storia…Purtroppo la realtà è cosa diversa dalle immagina della cisterna, “fotografata in Kansas”, con la scritta ben visibile “Covid-19”. E’ tutta una cospirazione, sempre, quando non si riesce a comprendere la genesi delle situazioni, quando non si riesce ad affrontare in maniera efficace un problema, quando la ragione apre la porta all’irrazionalità ed alla paura. Nel corso della peste milanese del ‘600 il Cardinale Federico Borromeo, cugino di San Carlo Borromeo, intraprese una serie di processioni attraversando la città e pregando in varie piazza dell’epoca (alcune ricordate ancora oggi con apposite stele. Ovviamente il contagio aumentò perché la processione avvicinò le persone che si contagiarono ulteriormente. Poi tutto finì…e nessuno, nella generazione successiva si ricordò…Ma quando non si aveva contezza della scienza era facile dare la colpa a qualcun altro, all’untore, come ben racconta Alessandro Manzoni ne “La colonna infame”. L’untore come interprete della finzione di quanto non si comprende o non si vuole comprendere. La finzione per correre, liberi, nei parchi perché “a me non accadrà, sono in forma…”. La finzione di chi esce più volte al giorno perchè “devo fare la spesa…la devo fare per mia mamma…per mia nonna…”; la finzione nel non ascoltare i colpi di tosse, la temperatura che si alza, quei dolori alle ossa…perché “è meglio non dirlo altrimenti non posso andare a…non posso incontrare…”. E la finzione si propaga, e tanti si contagiano, e molti, moltissimi, troppi muoiono. E gli Ospedali si riempiono, i medici e gli infermieri si ammalano, e i costi sociali salgono, e quelli economici esplodono. Ma, all’improvviso, il gioco si disvela in tutta la sua insostenibile realtà: non c’è più finzione quando l’ambulanza accende la sirena per l’ennesima volta. E quel suono è per te. Non c’è più finzione quando il ticchettio delle macchine, ritmico e incostante, continua a battere nel cervello. E quel cervello è il tuo. Non c’è più finzione quando i letti accanto al tuo si svuotano e si riempiono, si svuotano e si riempiono, si svuotano e si riempiono. E tu non sai se il tuo rimarrà a te oppure passerà ad un altro. Non c’è più finzione quando il pensiero corre verso la vita e ciascuno si aggrappa come può a ciò che ritiene dargli più forza. Affetti, ricordi, speranze, Dio…E non c’è più finzione quando senti la campane che suonano, a distanza eppure sempre più vicine perché sono campane dai rintocchi che ben si temono…Se la finzione è uno dei totem del nostro mondo, del nostro esistere, del nostro relazionarci allora è bene aprire gli occhi e richiamare tutto e tutti al bisogno di verità, di trasparenza, di onesta. La finzione è bene incontrarla al cinema, nella letteratura, a teatro, nelle canzoni. Ma nella vita no, nella vita è indispensabile, importante, necessario, vitale allontanare la finzione, allontanarci da questo demone che tutto pervade e tutto distrugge, come un virus. Il vaccino lo conosciamo: si chiama verità…
Salvo i comandati per ragioni di lavoro indispensabile e gli irresponsabili siamo tutti ai domiciliari. Un momento di impedimento ma, anche, di riflessione. C’è la preoccupazione per la salute, l’economia, il lavoro. Certo, tutto assolutamente reale e concreto. Vero e condivisibile. Si tratta dei tre elementi che tengono in piedi la vita di ciascuno e della comunità intera. Poi viene da riflettere sul senso della ricchezza (alla fine siamo tutti vulnerabili, come nelle epidemie del passato quando peste, colera, tifo, spagnola ed altre epidemia si infilavano nella sale dei Re e delle Regine). Una ricchezza quasi sempre non condivisa e tenuta gelosamente per sé e per la propria tribù famigliare. Poi viene da riflettere sul senso di una economia che non funziona più perché il capitalismo, come l’economia pianificata di sovietica memoria, ha fatto il suo tempo e deve essere sostituita con un diverso modo di vivere le dinamiche della crescita e dello sviluppo. Il modello di accumulazione del capitale ormai non funziona più. Carlo Marx, pur con i suoi errori teorici, l’aveva capito già a metà dell’ottocento. Poi sarebbe intelligente leggere la società e la storia con occhi diversi.
A suo tempo Al Gore aveva spiegato bene cosa avrebbe comportato continuare in un certo modo per il cambiamento climatico. Lo hanno irriso come un “capitalista sfigato”. Bill Gates ha spiegato bene in un video del 2014 che saremmo stati sterminati da un virus. Non è servito a nulla. L’imperativo era fare fatturato, crescere, fare dividendi…Ora ci accorgiamo che si può morire senza essere andati nella jungla come Indiana Jones, che il nostro vicino di casa, un nostro amico, medico o infermiere che sia rischia la vita come anche i volontari delle varie croci di soccorso, che il virus è ancora sconosciuto e che, come tale, rimarrà un’incognita per mesi se non anni. Ora ci accorgiamo che i problemi veri esulano dalle paure inflitte agli italiani da una certa politica e che nessuna presunta precedente emergenza aveva costretto un Paese (tanti Paesi) a chiudersi in casa in clausura forzata. Ora scopriamo che tanti nomi che abbiamo sul telefono magari non li vediamo da tempo e ci farebbe piacere incontrali e salutarli con una stretta di mano o un abbraccio. Ora sentiamo che la vita è fatta di tante piccole cose e che quelle più importanti erano state messe in un ordine sparso non necessariamente in quello dovuto. Ora…e domani…? Domani cosa faremo?
Domani, quando (speriamo presto) la paura sarà passata e avremo contato i morti, i feriti, i deprivati psicologicamente (che saranno molti, tantissimi, una miriade…), i danni all’economia mondiale e personale, cosa accadrà? Ci sarà l’intelligenza di ripensare alla nostra vita in termini diversi? Ci sarà la capacità di rimettere priorità ed affetti nel giusto ordine? Ci sarà la capacità da parte di Governi e Nazioni di cambiare lo stile e le ragioni di vita per indirizzare i popoli ad altri obbiettivi ed ambizioni? Ci sarà da parte di ciascuno di noi, delle persone normali, dei cittadini, del popolo, la capacità di non farsi “corrompere” dalla vanità del mondo comprendendo che un affetto, un’amicizia, uno sguardo alle montagne o un viaggio per mare, la lettura di un libro, la condivisione di momenti “veri” e di sincerità, il vivere in un contesto di comunità possono essere il segno vero e profondo di una differenza di approccio verso l’altro, verso se stessi, nei confronti del Pianeta, della vita tutta. Dovremmo diventare più consapevoli del fatto che la comunità è sempre più forte dell’unità, seppure la più straordinaria, e che la vita, la vita di tutti, ha un tempo definito e/o definitivo. da questo non si sfugge e proprio per questo tutti dovremmo essere capaci di andare oltre l’immediata convenienza, il desiderio di “accaparrare”, la smania del possesso, per comprendere quando migliore potrebbe essere la vita di tutti. Qualche secolo fa a un viandante perso nel deserto vennero consegnate delle regole di vita. Non erano molte. Non erano e non sono difficili da seguirle. Basta volerlo, basta non farsi sopraffare dal desiderio. Che non è eterno…

Questi giorni, forse e solo per alcuni, saranno importanti per rimettere al centro i veri valori della vita, il senso profondo degli affetti e la giusta attenzione “alle cose”. Quando ci si accorge che un essere infinitesimo può decidere della vita e della morte di migliaia, di milioni di persone ci si rende conto di quanto il resto sia davvero molto fragile. Mia mamma era meravigliata quando, arrivando a Milano, vide l’acqua scorrere dai rubinetti. E con lo scaldabagno era anche calda. Lei che era abituata ad andare a prendere, con le sue sorelle, alla fontana della piazza. Come migliaia e migliaia di sue coetanee. Oggi, forse, ci si rende conto di quanto fragili e falsi erano gli allarmi per situazioni che coinvolgevano poche centinaia, o anche migliaia, di profughi che scappavano e scappano dalla guerra mentre oggi osserviamo, senza sgomento ma con una sorta di etica rassegnazione, alla fuga da Milano di lavoratori e studenti che corrono verso casa, “tradendo” la città che li ha accolti e fatti crescere. Un tradimento senza senso e per questo non tollerabile. Così come è un tradimento, ma verso se stessi, l’affollare i supermercati accaparrando il possibile e lasciando magari le persone sole, deboli, fragili, con le briciole.
Come sempre, come se la civiltà e la solidarietà fossero scomparse all’improvviso. Ci sta raccontando molto questa crisi. Ci sussurra che la sanità pubblica è stata penalizzata perché altrimenti non si capirebbe sia la mancanza di posti in terapia intensiva che il bisogno di medici ed infermieri a migliaia. Se tutto andava bene, come la vulgata regionale racconta da decenni perché queste richieste? A nessuno è mai venuto in mente di ricordare le epidemie dei decenni, non secoli, precedenti? Ci segnala che anche la tenerezza di un braccio, di un bacio, la consuetudine di una stretta di mano può diventare una pugnalata, rompendo, così, consuetudini naturali delle persone. Ci fa capire che anche cose semplici, come entrare in un bar a prendere un caffè, oppure aggrapparsi ad un sostegno dei mezzi pubblici può essere pericoloso. Ci sorprende con la consapevolezza che ci è vietato andare al cinema, in un museo, allo stadio, in palestra, di svolgere le normali occupazioni del quotidiano o, comunque, a renderle imperfette, complicate, difficili. Siamo stati colti tutti impreparati perché l’obbiettivo era altrove. Guardavamo il dito e non la luna.
Seguivamo l’andamento del PIL o del campionato, l’esito delle elezioni in Emilia Romagna quasi fosse un’ordalia divina, eravamo già con la mente alle ferie, qualcuno già pregustava le Olimpiadi prossime ventura, altri, magari, il rialzo dei titoli di Borsa. Tante cose, attività, avvenimenti, eventi, situazioni…ciascuna ricca della sua dignità e assolutamente da rispettare: fanno parte della vita, del nostro quotidiano, del nostro essere, qui ed ora. Nel contempo, però, moltitudini si allontanavano dalla realtà profondamente umana cercando in altri lidi condizioni di vita più “moderne”: algoritmi, intelligenza artificiale, viaggi interplanetari. E invece ci si rende conto che le patate sono buone, che manca il burro, che i figli sono medici, che i nonni non stanno bene da qualche giorno, che non posso vedermi con i miei amici, che…Siamo un’umanità fragile che necessita di ritrovarsi convinta che solo la reale solidarietà cambia il mondo. E mentre il virus impazza e la scienza e l’abnegazione dei soliti “eroi” sconosciuti lo contrasta, in altri lidi, in altri contesti giovani, donne, bambini, uomini vengono annichiliti, uccisi, deportati in una tragedia senza fine quasi che di mondi ce ne fossero tanti e tutti separati e ciascuno di questi avesse vita indipendente. Ma così non è e dovremmo averlo capito
Varrebbe la pena rileggere, ogni tanto il libro dell’Ecclesiaste: saremmo sopraffatti dalla sua modernità…altrimenti avverrà che “Lungo le Torri di guardia…il vento cominciò a ululare…” (Bob Dylan, All along the watch tower)

Se una lezione dobbiamo imparare da quanto sta accadendo forse potrebbe essere opportuno rivedere due punti in particolare: la fragilità umana data soprattutto dall’incedere delle patologie dell’età che aumentano in termini di aspettativa di vita. Per questa ragione sarebbe opportuno “tarare” sulla popolazione over 65/70 misure sanitarie mirate in termini di adeguamento di attrezzature mediche e di supporto alla ricerca clinica per ovviare a quanto si manifesterà in futuro. Il cambiamento climatico è probabilmente parte in causa del problema e su questo tema sarà importante intervenire subito senza attendere il 2050 per l’eliminazione delle emissioni fossili. Il secondo tema è quello dello sviluppo della società. Il modello che “trascina” l’economia, capitalismo e globalizzazione, sta mostrando segni di cedimento. Sia in termini di produzione che di livellamento, verso il basso, di benessere. Se una società genera ricchezze stratosferiche mentre profughi vagano snelle tante terre di nessuno del pianeta, significa che qualcosa non sta funzionando bene.
Se le tecnologie tolgono il lavoro anziché renderlo superfluo per mettere al centro la persona con le sue ricchezze (e debolezze) significa che il sistema non funziona. Se nel nostro Paese ogni anno abbiamo bisogno di circa 65 mila persone, generalmente extra comunitari senza alcuna garanzia, per rendere possibile il proseguimento di attività di raccolta dei prodotti della terra, dalle fragole ai pomodori, dalle olive all’uva, significa che abbiamo un problema. Ma non l’abbiamo solo noi, è il mondo economico che deve riformarsi affinchè continui ad esserci vita sul Pianeta. Quando ero bambino nessuno avrebbe mai immaginato di vedere isole di plastica vagare nei mari del Sud oppure osservare lo sciogliersi del permafrost e delle nevi dei ghiacciai. Se ora questi eventi sono considerati “normali”, significa che abbiamo un problema. Il corona virus (un ospite del pianeta dalla sua creazione, come tanti elementi genetici che non si sono evoluti) Può diventare, almeno si spera, lo sparti acque tra un prima dove l’unica ragione d’essere è il profitto o il dopo dove l’unica ragione d’essere è la vita. “Dirai che sono un sognatore, ma spero che un giorno ti unirai a noi e il mondo sarà tutt’uno”. (Imagine, John Lennon)

Due mondi…Una separazione netta…Questo è il nostro tempo, questo è ciò che siamo costretti a vivere. Di qui la vita, di là la morte…Un po’ come le tante storie che abbiamo letto sui lager nazisti: bastava un cenno e la vita si tramutava in morte. In questi giorni è l’incontro “sbagliato” che decide quale lato della strada si andrà a percorrere, di quale mondo si andrà a fare parte. il mondo del futuro oppure il tempo del passato dove qualcuno ricorderà e qualcun altro sarà ricordato. Molte sono le voci di questi giorni convulsi: voci di paura, voci di dolore, voci di liberazione, voci di speranza. Cantare una canzone oppure un'altra dipende solo dal caso oppure dalla prudenza. Oppure dipende dalla fortuna: di avere il sistema immunitario capace di difendersi dal virus, non avere particolari patologie. Oppure avere un sistema immunitario depresso e malattie patologiche che indeboliscono l’organismo. Oppure è fortuna pura per non essere entrati una certa stanza, non aver preso quella determinata corsa del bus o della metropolitana. O sfortuna per essere stati a contatto, magari per poco, con un contagiato, sintomatico omeno che fosse. la vita e la morte, la salute e la malattia sono spesso frutto di una serie di circostanze fortunate/sfortunate. E’ l’eterno dualismo della vita. Lo yin e lo yang, la danza di Shiva e Vishnu, il tempo del sogno e la realtà, il bene e il male, il karma perenne o il samadhi…Tutto è duplice, tutto è bianco e nero, tutto si trasforma e cambia di stato ma, alla fine, prende una forma, che lo vediamo oppure no. Di fronte a questi due mondi cosa possiamo fare? Come possiamo difenderci? Come possiamo entrarvi ed uscire senza rimanere intrappolati in quello oscuro…? Spesso non vi è una risposta univoca…non può esserci perché troppe sono le variabili e, purtroppo, i Santi hanno altro da fare che concedere sguardi misericordiosi all’umanità che sta distruggendo il Pianeta, l’esempio migliore del senso di perfezione. Perché una farfalla è perfetta, perché un fiume pulito è perfetto, perché un’aragosta del mar dei Caraibi è perfetta, perché un fiore e perfetto, perché un tuono è perfetto, perché…tante cose sono perfette, però…Due mondi, ai quali siamo chiamati ad appartenere. Due mondi che ci aspettano al varco: il mondo di chi è al di là del vetro, fermo, immobile, affidato alle cure dei medici e degli infermieri, alla funzionalità degli strumenti respiratori e quello di chi si trova al di qua di quel vetro, di quella linea di demarcazione che può cambiare, determinare un’esistenza, più esistenze. Due mondi dove le differenze non sono più di ceto o differenze economiche ma di possibilità anche genetiche, di opportunità che sfuggono alle regole o a qualunque ipotesi se non quella di abbandonarsi al mistero, ai suoi passi sommessi e sconosciuti. Senza perché, senza ragioni, senza possibilità di poter intervenire. Due mondi che si incontrano, si scontrano, si abbracciano, si separano. Due mondi nei quali si decideranno destini di vita, della nostra vita e dei nostri cari. Nonostante le nostre ritrosie o quant’altre scuse, questa realtà bussa alle nostre parte e ci ricorda che dobbiamo sempre scegliere da che parte stare ma, anche, cha a volte, la scelta non è solo nostra…

Sospensione…Arriva l’arbitro e manda tutti a casa…La partita è finita…Oppure no. Non va a casa nessuno. Tutti intorno a lui, in cerchio, ad ascoltare le ragioni della sospensione. E l’arbitro parla, illustra, spiega, racconta, ammonisce, ricorda, indirizza. Dice che questo è un tempo sospeso, un tempo nel quale dobbiamo fare lo sforzo di capire che alcune cose non sono consentite perché c’è una valida ragione. Tutti i giocatori obbiettano, così gli allenatori ed i tifosi. Ognuno con le proprie ragioni, tutte reali e condivisibili. Ma non sono sufficienti. L’arbitro ribadisce che il tempo deve rimanere sospeso. Ciascuno dei giocatori si guarda perplesso…”E adesso che cosa facciamo…?” sembra che chiedano al vicino oppure a se stessi…Già, tutti si sono allenati per raggiungere un obbiettivo, hanno speso soldi, hanno investito fatica e fiducia, si sono sottoposti a fatiche e privazioni ed ora…ora devono guardare il campo della competizione con occhi diversi. Via la palla da basket, via il pallone da calcio, lontano la palla da rugby, abbandonati i bastoni da hockey…non c’è posto né tempo per la gara. Ora ogni competizione è sospesa. Il tempo stesso è sospeso, anche il pensiero pare essere in condizioni di sospensione. Ma forse non  è così…Ciascuno si osserva, ciascuno si interroga, ciascuno si volta verso i suoi passi e si accorge che non è solo un tempo sospeso. E’ una vita sospesa. Ma non da ora, da molto tempo. Lo spazio ed il tempo, ora, sono in una differente dimensione. Ricominciano a parlarsi e a parlare con chi li ha abbandonati. Non chiedono più permesso perché ora, con la sospensione della “normalità” anche ciò che tale non è appare con una luce, con una prospettiva completamente differente. All’improvviso ci si accorge che, come affermavano gli antichi aborigeni, esiste un tempo del sogno in cui il tempo e lo spazio sono vissuti in maniera differente da come abitualmente si pensa che siano. Allora questa sospensione potrebbe diventare un’opportunità, seppure intrisa di dolore e di sciagure, per ridarci la vista, per ricondurci all’udito, per restituirci la parola. Per ricondurci ad una dimensione che dovrebbe rappresentarci per quello che siamo realmente: persone. Non cose, non numeri, non cataloghi, non indirizzi postali, non consumatori, non soggetti anonimi, ma persone. “Solo” persone dotati di uno spirito che si chiama Vita. Allo scoccare della sospensione del tempo, allora, potremmo ascoltare lo squillo delle sette trombe, quelle che aprono i sigilli del Libro ed in quel momento capiremmo che in quella sospensione del tempo l’arbitro ha “gli occhi di brace” che potrebbero aprire quelle porte che, quasi tutti, tengono furiosamente chiuse all’imprevisto, al coraggio, al dovere, alla solidarietà, alla manifestazione del senso di umanità che, pure se nascosto, ci pervade nostro malgrado. “E ti vengo a cercare/anche solo per vederti o parlare/perché ho bisogno della tua presenza/per capire meglio la mia essenza…”. Forse in queste parole (auguri, oggi, Maestro…) c’è il senso della ripresa, della cancellazione della sospensione, del rimettersi a combattere, a lavorare, a giocare, ad amare, a soffrire, a sperare. Insomma, a vivere…

Breathe…Respira…Lo aveva scritto Yoko Ono in una delle sue esposizioni surreali tenutasi, nel 1966, nella sala del Club Indica di Londra. Laddove incontrò per la prima volta John Lennon. Poi divenne il titolo un brano di un album dei Pink Floyd…il monumentale “The dark side of the moon”…Respira…oggi è diventato l’imperativo assoluto per coloro che sono vittime del corona virus, che sono in terapia intensiva perché l’aria non riesce ad ossigenare i polmoni dei malati aggrediti dal virus in tutta la sua virulenza. Eppure è così semplice…Inspirare ed espirare…è così semplice che non ce ne rendiamo conto tanto il processo è meccanico, naturale, al di là della nostra coscienza…Inspirare ed espirare è il primo messaggio, inconscio ed ancestrale che il nostro corpo riceve alla nascita ed a quell’alito di vita siamo tutti appesi, per sempre, senza possibilità di fuga perché “allontanarsi” da questo meccanismo significa perdere la vita. Nella semplicità del gesto, nella semplicità dell’incedere del respiro, nella semplicità del trasformare, inconsapevoli, l’aria in ossigeno che irrora il sangue che dà vita agli organi, che danno vita a persone, ad esseri umani, che trasformano la realtà circostante, che pensano, che vivono che amano, che…Tutto in maniera inconsapevole, tutto in maniera automatica, tutto in maniera istintiva. Il massimo del riscontro vitale racchiuso nell’inconsapevolezza dell’abitudine e del riflesso condizionato. Ma poi, ad un certo punto, accade che il respiro si affanna, si inceppa, si irrigidisce, si va rarefacendo, diventa nebbioso, denso, sempre più denso, sempre più oscuro, fino a sparire…E noi con lui. Allora arrivano le macchine a sopperire al deficit. Noi siamo assenti ed inermi e veniamo affidati a qualcun altro. Ad una macchina, a un infermiere che controlla la macchina, ad un medico che controlla l’infermiere che controlla la macchina, a un Direttore Sanitario che...Quante mani ad accudire la mancanza di un respiro, di dieci, cento, mille, migliaia di respiri in fuga dalla realtà, in fuga dalla vita ma alla disperata rincorsa di ritornare indietro, di ritrovare il ritmo nascosto del nostro essere…Quel ritmo sconosciuto perché non cercato, quell’inspirare ed espirare che era dono gratuito incompreso ed ora diventa grazia cercata, grazie (di)sperata…Ora tutto è nuovo e diverso e quello che era la normalità ora è eccezionalità. Non si può più ragionare per ovvietà, per fatti scontati, per consuetudine. ora tutto è diverso, pericoloso, ansioso e, per alcuni, ansimante. Inspirare ed espirare…Ora potrebbe essere una macchina a farlo e lei è governata non dal cervello, dal sistema nervoso, dai meccanismi cerebrali a noi sconosciuti, ma da una pompa, da circuiti elettrici e meccanici, dalla erogazione dal mix di sostanze gassose che entrando nei polmoni li alzano e li abbassano rendendo così possibile il mantenimento della vita…Nulla è scontato, nulla è banale anche quando ci sembra “normale”, da sempre. Nulla è per sempre e questo deve rimanere un monito. Oggi e sempre. Inspirare e respirare. Per pensare, per godere della bellezza del creato, per amare e per esprimere, al meglio, i giorni “contati” che ci sono concessi…       

L’invasione aliena è iniziata…? Già, perché pare di essere in una sorta di film di fantascienza…Dalle remote terre cinesi è sorto un virus sconosciuto che dopo avere compiuto stragi e distruzioni ha iniziato a muoversi verso l’Occidente per continuare la sua opera uccidendo persone ma lasciando intatti i beni materiali, strutture ed infrastrutture a perenne utilizzo per il dopo visto che persistenza del virus stesso sugli oggetti è molto limitata. Sarebbe il film perfetto, la fantascienza che trionfa dopo che sulla carta e sullo schermo anche nella realtà. Il piccolo, il microscopico, il quasi invisibile attacca l’immenso corpo della società e lentamente lo sgretola, i suoi componenti più deboli (per il momento), ne intacca l’economia, distrugge i suoi centri sanitaria, uccide medici ed infermieri o, comunque, li mette in serie difficoltà sanitaria. la tempesta perfetta…Uccide, distrugge, crea panico,  rende sospettosi gli uni verso gli altri, mette in moto i peggiori stati d’ansia perché non si conosce il futuro, il domani, l’ora successiva. Non ci si può incontrare, sono sospese molte libertà, molti perdono o perderanno la propria occupazione, ci saranno conseguenze per l’economia…Si potrebbe continuare a lungo perché la lista è lunga e vaste sono le praterie sulle quali il virus, “gli alieni”, si stanno sempre più inoltrando. Oggi ci rendiamo tutti conto (almeno coloro che sono dotati di sentimenti e raziocinio) che anche le cose più normali, scontate, abituali sono una grande ricchezza. Incontrare amici, persone amate, andare a lavorare, chiacchierare per strada, andare in un bar, assistere ad una conferenza, ad un concerto…tutto quello che è naturale è messo in discussione, è sospeso in un tempo indefinito e non saremo noi a decidere quando questo tormento finirà. Molto dipenderà da come gli alieni si comporteranno e se si accontenteranno delle distruzioni compiute. Forse prova generale per quello che verrà dopo, come stimati scienziati hanno previsto in tempi non sospetti, Ovviamente non ascoltati. Ma una parte del “lavoro”, del combattimento sta in capo a noi tutti che dovremmo essere consapevoli che questo è il tempo dell’attesa, della ritirata ma, anche, del combattimento resiliente, per utilizzare una metafora accattivante. Bisogna rimanere quanto più possibile a casa cercando di non farsi prendere dalla tensione e dalla paura, sapendo gestire le proprie personali ansie e “patologie” psicologiche, dando la giusta attenzione ai piccoli e le necessarie rassicurazioni agli anziani. La guerra contro gli alieni deve essere potente ma, anche, attenta e mirata. perché gli alieni sono da sempre con noi. I microbi, i batteri, i virus sono da sempre con noi e sono stati sempre battuti in grandi battaglie e milioni di vittime (basti ricordare alla strage della influenza spagnola…). Ma gli alieni più pericolosi sono quelli che ci portiamo con noi, nascosti nei luoghi più reconditi della nostra psiche. sono i pregiudizi, sono le divisioni, sono gli odi, sono i rancori, sono le gelosie, sono gli egoismi, sono i razzismi di ogni tipo e natura, sono l’incapacità di gioire e godere della bellezza del creato, sono nella follia dell’accumulazione (una bara non contiene che un una persona…). Gli alieni sono nell’intolleranza, sono nella frenesia del vivere, sono nell’indifferenza, sono nell’incapacità di osservare lo scorrere del tempo con la necessaria serenità, sono nello stress che ci divora (e come ci godono i virus ad entrare in un corpo stressato…), sono nell’incapacità di vederci uguali e fratelli nel cammino della vita, sono nell’incessante incapacità di vivere in armonia con se stessi, sono nell’impossibilità di pacificare il proprio Io più profondo. Forse gli alieni, quelli veri e più distruttivi, ce li portiamo dentro…E sono i più pericolosi…forse quelli invincibili…    

Comes a time” cantava Neil Young nella metà degli anni ’70 (e fortunatamente la canta ancora…) e di che venga un tempo buono tutti ce lo auguriamo di cuore. Un tempo in cui le ambulanze suonino solo in casi eccezionali, dove gli Ospedali siano pieni “il giusto”, dove si muoia secondo le logiche della vita e le percentuali fisiologiche per ciascun Paese, che medici ed infermieri possano svolgere il loro lavoro salvifico senza rischiare di morire. Un tempo in cui il Paese, tutti i Paesi, siano privi di eroi ma colmi di persone normali che, normalmente, svolgono il loro quotidiano lavoro. Un tempo in cui i canti dai balconi ritornino nei luoghi deputati: i teatri, i palasport, gli stadi. Un tempo in cui andare a vedere uno spettacolo o una partita di calcio, di basket, di rugby sia un fatto naturale e non un evento di guerra. Untempo in cui l’abbraccio e la stretta di mano non siano “attività sconsigliate e vietate ma il normale modo di salutarsi e dimostrarsi affetto. Viene un tempo per tutte le cose recita il libro biblico dell’Ecclesiaste (le cui parole vennero riprese da Pete Seeger e dai Byrds…), ma bisogna essere in grado di comprenderle e guidarle, bisogna essere capaci di avere degli obbiettivi e di trovare consapevolezza ed alleati per conseguirli. Viene un tempo nel quale è necessario cambiare, pelle, è necessario cambiare vita, è necessario essere altro rispetto al tempo precedente, ai desideri ed alle opinioni del “prima” per giungere a un “dopo” che apra la via ad una vita nuova. E’ certamente un’impresa difficile, titanica per certi versi, improba ma, pure, se non percepiamo in quanto sta accadendo l’inizio di un nuovo mondo saremo condannati a rivivere tutto quanto oggi ci spaventa e ci rende esuli nelle nostre case…E’ il tempo dell’esilio, un esilio ben strano nella propria abitazione (per alcuni negli Ospedali da degenti o da operatori). Un esilio che non avremmo voluto vivere, un esilio dove siamo stati condotti pur senza avere commesso azioni negative, criminali, destabilizzanti. E’ l’esilio dagli affetti, dalle consuetudini, dal tempo ordinario della vita. E’ l’esilio che richiede introspezione e verifica di chi siamo e di chi sono le persone intorno a noi. Non si tratta di una visione poetica della vita ma della vita stessa che chiede di essere trasformata e riportata sulla strada della pienezza a cui dovremmo essere sempre chiamati. Se quello che è giunto a bussare alle nostre porte è il tempo dell’esilio dobbiamo lavorare “dentro di noi” per costruire le strade sulle quali andremo nuovamente a camminare ma non con i passi di prima bensì con passi e parole nuove, con uno spirito che sia in grado di aiutarci a comprendere quali, davvero, i punti salienti della vita e quali quelli che, invece, ci hanno fatto perdere solo del tempo; quel tempo che rappresenta una delle realtà fondamentali della vita. Perché non ritorna quando è perso ma che può essere rivalutato e riportato al centro della nostra consapevolezza. Spesso diciamo che dobbiamo “passare bene il tempo”, ed è corretto, ma meglio ancora dobbiamo sforzarci di vivere bene il tempo perché, Comes a time, arriva un tempo in cui dobbiamo fare i conti con la vita e con noi stessi con gli strumenti e con le esperienze che abbiamo costruito negli anni, con le relazioni e le amicizie, con i valori e con le paure, con i sogni e i sorrisi, e le delusioni e le lacrime. Ma il tempo, quello delle decisioni, arriva sempre. Ma il tempo, quello dei cambiamenti, arriva sempre. Ma arriva anche il tempo della “liberazione” e quando bussa alla porta non possiamo fingere di non sentire…

“Le vie dei Canti” è un libro straordinario di Bruce Chatwin…Un libro che è il racconto di una vita di viaggi, di luoghi, di incontri, di metafore, di narrazioni, di speranze. Un libro che porta il lettore verso luoghi lontani e, contemporaneamente, nella propria anima, nel proprio intimo, nel proprio profondo Sé, come a voler sancire il bisogno di andare lontano senza allontanarsi dalla propria intimità. Le vie dei Canti potrebbe essere chiamato il nostro cammino interiore di questi giorni desolati, tristi, pieni di mestizia e di dolore. Giorni che non dimenticheremo e che verranno scritti sui libri di storia. Giorni che non potranno passare indenni dalla nostra memoria e non potranno essere rimpiazzati da imprese sportive, vittorie elettorali, concerti negli stadi, vincite al lotto, Capodanni festosi e Natali lucenti. Saranno giorni ricordati per il dolore seminato a volontà, per le lacrime non viste, per le paure trattenute con dignità, con la forzata restrizione della propria libertà, con l’ira repressa per quello che si poteva prevedere e non è stato messo in campo e per l’impreparazione di alcune strutture sanitarie che si stanno reggendo sul coraggio degli operatori sanitari molti dei quali, ancora oggi, privi di tutti i necessari strumenti di protezione. Sono giorni intensi nella loro drammaticità quando anche il sacro ha, almeno dal punto di vista dell’immediato, “qualche battuta di arresto” e Papa Francesco si sente nella convinzione e necessità di fare, oggi, un gesto pubblico che mai era avvenuto nella storia della Cristianità. Sono i giorni della memoria indelebile e del cammino “in una selva oscura”, in una dimensione di silenzio e di speranza, in una dinamica che richiede capacità di decisione e di prontezza. Sono giorni nei quali non si può sbagliare nessun passo perché le conseguenze, quotidiane, sono sotto gli occhi di tutti. E’ il momento del silenzio e della riflessione, per chi ha la salute per farlo. E’ il momento del silenzio e della speranza per chi è malato e per i propri cari. Nel contempo la Via dei Canti che ciascuno si porta con sé non deve smettere di invitarci al cammino. perché non possiamo e non dobbiamo fermarci, perché dobbiamo essere consapevoli che il nostro cammino, personale e collettivo, è decisivo per non abbandonarci alla disperazione, alla sfiducia, allo scoramento, alla sconfitta. La Via dei Canti interiore deve e può essere la guida a resistere a questa tempesta per essere lucidi, dopo, quando sarà il momento dei resoconti, a sapere discernere “il bene dal male”, gli errori dalle azioni giuste, la disorganizzazione e la superficialità dall’organizzazione e dalla precisione e tempestività. Oggi dobbiamo solo camminare, non stare fermi nelle nostre abitazioni ma camminare. Con il pensiero, con la logica, con i sentimenti, con la necessaria lucidità storica ed etica. perché dopo un diluvio c’è una colomba. E dopo una colomba, la terra ferma…         

Inizia con il tocco delicato del pianoforte “Murder most foul” il brano inedito messo in rete da Bob Dylan ieri. 17 minuti di parole e musica che avvolgono chi ascolta perché sono il racconto di una storia lunga più di mezzo secolo. Il suono di violoncello che accompagna le note del piano sono una sorta di doloroso lamento che riporta la memoria di tutti al tempo vissuto, al tempo letto, al tempo raccontato. E poi al presente con l’esortazione a stare a casa, a volersi bene. Bob Dylan, questo cantore del tempo che non ha tempo e vuole tempo. Bob Dylan nato ebreo, diventato agnostico, e poi convertito al cristianesimo, poi tornato ebreo ma, in fondo, sempre con “il Libro” aperto, come raccontava sua madre. “Un Libro” dove leggere storie e trasformarle in parole nuove e canzoni, nuovi salmi per i nostri giorni, nuove litanie per “un popolo” che attendeva ed attende, sempre, il Verbo, un Mosè, un Salvatore. Di cosa, di chi, del come e del perché è sempre un fatto personale. Lo hanno soprannominato in mille maniera ma il “titolo” che maggiormente lo ha tormentato è stato quello di “profeta di una generazione”. Forse non era la parola “profeta” a disturbarlo ma “generazione”, perché le parole che scrive e canta sono parole per tutte le generazioni. Sono passati sessant’anni da quando cominciò a suonare in piccoli folk club del Minnesota e cinquantanove da quando arrivò a new York, in una gelida giornata d’Inverno. quindi le sue parole non erano profetiche per una generazione ma per tutte le generazioni e quel Libro sempre aperto nella casa di Woodstock è stata la sua stella cometa dell’ispitazione post incidente motociclistico…Forse, chissà, perché lui è “uno, nessuno e centomila”. Nel 1997 a Bologna (20 anni dopo il famoso “Convegno contro la repressione” di un ’77 infuocato), Dylan suonò al Convegno Eucaristico alla presenza di Papa Giovanni Paolo II°. Erano tempi di cambiamenti (era caduto il monolite sovietico, si stavano costruendo le basi della globalizzazione, l’informatica iniziava a dominare la tecnologia…) e il Papa raccolse l’invito a trovare “la risposta che soffia nel vento”. Ora con questa canzone (?) o, forse, questo racconto di storia contemporanea, Dylan ci invita a riflettere sulla nostra vita, sulla nostra storia, sul senso del tempo che scorre. Un umo solo che canta, un pianoforte con poche note ed un violoncello, delicato, a corredare il testo. Lungo, ipnotico, enigmatico. Il più lungo della sua carriera…

Fu un giorno buio a Dallas, nel novembre '63
Un giorno che vivrà nell'infamia
Il presidente Kennedy era molto in gamba
Buona giornata per vivere e una buona giornata per morire
Condotto al massacro come un agnello sacrificale
Disse: "Aspetta un attimo, ragazzi, sapete chi sono?"
"Certo che lo sappiamo, sappiamo chi sei!"
Poi gli hanno fatto saltare la testa mentre era ancora in macchina
Abbattuto come un cane in pieno giorno
Era una questione di tempismo e il tempismo era giusto
Hai debiti non pagati, siamo venuti a riscuoterli
Ti uccideremo con odio, senza alcun rispetto
Ti derideremo e ti sconvolgeremo e te lo sbatteremo in faccia
Abbiamo già qualcuno qui a prendere il tuo posto
Il giorno in cui hanno fatto esplodere il cervello del re
Migliaia di persone stavano guardando, nessuno vide nulla
È successo così in fretta, così in fretta, di sorpresa
Proprio lì davanti agli occhi di tutti
Il più grande trucco magico di sempre sotto il sole
Perfettamente eseguito, abilmente fatto
Lupo mannaro, oh lupo mannaro, oh lupo mannaro ulula
E' un omicidio davvero disgustoso
Silenzio, bambini piccoli, capirete
I Beatles stanno arrivando, vi terranno la mano
Scorri la ringhiera, vai a prendere il cappotto
Ferry attraversa il Mersey e vai per la gola
Ci sono tre barboni che arrivano tutti vestiti di stracci
Raccogli i pezzi e abbassa le bandiere
Sto andando a Woodstock, è l'Era dell'Acquario
Poi andrò ad Altamont e mi siedo vicino al palco
Metti la testa fuori dalla finestra, lascia che i bei tempi passino
C'è una festa dietro il Grassy Knoll
Impila i mattoni, versa il cemento
Non dire che Dallas non ti ama, signor Presidente
Metti il
​​piede nel serbatoio e poi dai gas
Prova a raggiungere il triplo sottopasso
Cantante dei Blackface, pagliaccio dal viso bianco
Meglio non mostrare i tuoi volti dopo il tramonto
Nel quartiere a luci rosse, c'è un poliziotto in pace
Vive in un incubo su Elm Street
Quando sei su Deep Ellum, metti i tuoi soldi nella scarpa
Non chiedere cosa può fare il tuo paese per te
Contanti al voto, soldi da bruciare
Dealey Plaza, gira a sinistra
Scendo all'incrocio, segnerò un passaggio
Il luogo in cui si trovano la fede, la speranza e la carità
Sparagli mentre corre, ragazzo, sparagli mentre puoi
Vedi se riesci a sparare all'uomo invisibile
Arrivederci, Charlie! Arrivederci, zio Sam!
Francamente, signorina Scarlett, me ne infischio
Qual è la verità e dove è andata?
Chiedi a Oswald e Ruby, dovrebbero saperlo
"Chiudi la bocca" disse un vecchio saggio gufo
Gli affari sono affari ed è un omicidio molto disgustoso
Tommy, mi senti? Sono la regina acida
Sto guidando una lunga limousine nera Lincoln
Cavalcando sul sedile posteriore accanto a mia moglie
Dirigiti direttamente nell'aldilà
Mi chino a sinistra, ho la testa in grembo
Aspetta, sono stato condotto in una specie di trappola
Dove non chiediamo un quarto, e nessun quarto diamo
Siamo proprio in fondo alla strada, dalla strada in cui vivi
Gli hanno mutilato il corpo e gli hanno tolto il cervello
Cosa potrebbero fare di più? Si sono accumulati sul dolore
Ma la sua anima non era lì dove doveva essere
Negli ultimi cinquant'anni lo hanno cercato
Libertà, oh libertà, libertà su di me
Odio dirtelo, signore, ma solo i morti sono liberi
Mandami un po' di amore, quindi non dirmi nessuna bugia
Getta la pistola nella grondaia e prosegui
Sveglia, piccola Susie, andiamo a fare un giro
Attraversiamo il fiume Trinity, manteniamo viva la speranza
Accendi la radio, non toccare i quadranti
L'ospedale di Parkland, a sole altre sei miglia
Mi hai fatto venire le vertigini, signorina Lizzy, mi hai riempito di piombo
Quel tuo proiettile magico mi è andato in testa
Sono solo un pacchiano come Patsy Cline
Non sparare mai a nessuno davanti o dietro
Ho sangue negli occhi, ho sangue nell'orecchio
Non riuscirò mai a raggiungere la nuova frontiera
Il film di Zapruder che ho visto la sera prima
L'ho visto trentatre volte, forse di più
È vile e ingannevole, è crudele ed è cattivo
La cosa più brutta che tu abbia mai visto
Lo hanno ucciso una volta e l'hanno ucciso due volte
L'hanno ucciso come un sacrificio umano
Il giorno in cui lo hanno ucciso, qualcuno mi ha detto: "Figlio
L'era dell'Anticristo è appena iniziata "
L'Air Force One entra attraverso il cancello
Johnson ha prestato giuramento alle 2:38
Fammi sapere quando decidi di gettare la spugna
È quello che è ed è l'omicidio più disgustoso
Cosa c'è di nuovo, micina? Che cosa ho detto?
Ho detto che l'anima di una nazione è stata strappata via
E sta iniziando a decadere lentamente
E che sono trascorse trentasei ore dal Giorno del Giudizio
Wolfman Jack, sta parlando in lingue
Sta andando avanti e avanti nella parte superiore dei suoi polmoni
Suonami una canzone, signor Wolfman Jack
Suonalo per me nella mia lunga Cadillac
Suonami "Only the Good Die Young"
Portami nel posto in cui Tom Dooley è stato appeso
Gioca a "St. James Infirmary" e alla Corte di King James
Se vuoi ricordare, è meglio scrivere i nomi
Gioca anche a Etta James, suona "I'd Rather Go Blind"
Gioca per l'uomo con la mente telepatica
Gioca a John Lee Hooker, gioca a "Scratch My Back"
Gioca per quel proprietario dello strip club di nome Jack
Guitar Slim scende lentamente
Suonalo per me e per Marilyn Monroe
Suona "Please Don't Let Me Be Misunderstood"
Suonalo per la First Lady, non si sente affatto bene
Suona Don Henley, Suona Glenn Frey
Portalo al limite e lascialo fare
Suonalo anche per Carl Wilson
Guardando lontano, molto lontano lungo Gower Avenue
Suona una tragedia, suona "Twilight Time"
Riportami a Tulsa sulla scena del crimine
Suonane un'altra e "Another One Bites the Dust"
Suona "The Old Rugged Cross" e "In God We Trust"
Cavalca il cavallo rosa lungo quella lunga e solitaria strada
Resta lì e aspetta che esploda la sua testa
Suona "Mystery Train" per Mr. Mystery
L'uomo che cadde morto come un albero senza radici
Suonalo per il reverendo, suonalo per il pastore
Suonalo per il cane che non ha padrone
Suona Oscar Peterson, Suona Stan Getz
Suona "Blue Sky," Suona Dickey Betts
Suona Art Pepper, Thelonious Monk
Charlie Parker e tutta quella roba
Tutta quella spazzatura e "All That Jazz"
Suona qualcosa per the Birdman of Alcatraz
Suona Buster Keaton, Suona Harold Lloyd
Suona Bugsy Siegel, suona Pretty Boy Floyd
Gioca i numeri, le addizioni
Suona "Cry Me A River" per il Dio degli dei
Suona il numero 9, suona il numero 6
Suonalo per Lindsey e Stevie Nicks
Suona Nat King Cole, suona "Nature Boy"
Suona "Down In The Boondocks" per Terry Malloy
Suona "It Happened One Night" e "One Night of Sin"
Ci sono dodici milioni di anime in ascolto
Suona "Merchant of Venice", suona "Merchants of Death"
Suona "Stella by Starlight" oer Lady Macbeth
Non si preoccupi, Mr. President, l'aiuto sta arrivando
I tuoi fratello stanno arrivando, ci sarà un inferno da affrontare
Fratelli? Quali fratelli? Quale inferno?
Diglielo "Stiamo aspettando che inizi" lo affronteremo come si dovrà
Love Field è dove il suo aereo è atterrato
Ma non è mai tornato da terra
È stato un atto difficile da seguire, secondo a nessuno
Lo hanno ucciso sull'altare del sol levante
Suona "Misty" per me e "That Old Devil Moon"
Suona "Anything Goes" e "Memphis in June"
Suona "Lonely At the Top" e "Lonely Are the Brave"
Suonalo per Houdini che gira intorno alla sua tomba
Suona Jelly Roll Morton, suona "Lucille"
Suona "Deep In a Dream" e suona "Driving Wheel"
Suona "Moonlight Sonata" in F-minore
E "A Key to the Highway" per il re dell'arpa
Suona "Marching Through Georgia" e "Dumbarton's Drums"
Gioca al buio e la morte arriverà quando arriverà
Suona "Love Me Or Leave Me" del grande Bud Powell
Suona "The Blood-stained Banner", suona "Murder Most Foul"

 
E’ un viaggio nella storia recente, anche se il titolo riprende un passaggio dell’Amleto di Shakespeare a dimostrazione che tutto cambia ma ogni cosa rimane simile nel tempo. Cambiano gli attori e il palcoscenico, ma le storie sono immancabilmente uguali…Basti leggere il “Libro dei Re” o il “Libro delle Cronache” per rimanere perplessi rispetto al concetto di modernità. Novello Mosè un'altra volta il ragazzo del Minnesota ci prende per mano e ci accompagna nella storia. Armato solo della parola. Così, come armato solo della Parola, ma anche dalla fede e dalla speranza, si è mostrato al mondo un altro pellegrino, Papa Francesco, l’uomo che disse la sera della sua elezione “sono venuti a prendermi fino alla fine del mondo…”. E lui, ieri sera, da solo nella Piazza San Pietro pareva giungere da un altro tempo per fermare “la fine del mondo”. Con gesti misurati e profondi ha mostrato la debolezza dell’uomo, la sua debolezza, al mondo intero e anche molti non credenti ne hanno lodato il coraggio (mostrare la debolezza è sempre un atto di coraggio), la sua fede profonda, la sua determinazione, il suo confidare, fidarsi, affidarsi nel racconto della tempesta sedata sul lago di Tiberiade. Mentre gli apostoli temevano, giustamente, per le loro vita, il loro vate, Gesù Cristo, diceva loro di stare calmi e di avere fiducia che Lui sarebbe intervenuto a ristabilire la pace. E il Papa, che di Cristo è il vicario in terra (ovviamente per i cattolici), a chi poteva affidarsi se non a Colui che rappresenta. Ieri sera varie generazioni hanno visto la Storia in diretta. Il crocefisso ligneo a cui nel 1522, nella processione che durò dal 4 al 16 Agosto, si affidarono i romani perché cessasse la “grande peste” è stato portato in San Pietro per la preghiera e la benedizione “alla città e al mondo”.
Profezie differenti, entrambe inserite nel mondo. Uno della parola che si esprime con la musica e con le imperfezioni della propria vita. Come quelle di tutti noi. L’altro con la Parola che discende dal sacro che rappresenta. Entrambi in cammino, come pellegrini, come Mosè, per trovare sempre la strada migliore da percorrere…”How many roads…?”…canta il primo; “Perché avete paura…Non avete ancora fede…?” ammonisce il secondo. A noi la libertà di trovare la risposta…  


Ieri sera ho guardato un DVD relativo alla presenza di Bob Dylan al Festival di Newport, anni 1963, 1964, 1965. L'ascesa ed il consolidamento della presenza artistica di uno dei giganti della musica, della poesia , dell'arte dello scorso secolo ed anche di quello che stiamo vivendo (e che ci ha dato modo di ascoltare due straordinari inediti disponibili sul suo sito. Guardando l'artista ed ascoltando le sue canzoni si coglie la sua grande presenza scenica anche a 22 anni, anche con un semplice chitarra con, intorno, la folla attenta e colpita dalle parole che scaturivano da quel giovane che era arrivato a in freddo Gennaio del 1961, a New York, dalle altrettanto gelide terre del Minnesota. Raccontava storie alla maniera di Woody Guthrie ma già due anni dopo imbracciava la chitarra elettrica e strabiliava/sorprendeva/irritava il pubblico di quel 25 Luglio del 1965 che, probabilmente, non si aspettava un approccio "ruvido ed elettrico" alle canzoni attese come nuovi quadri di una storia della canzone popolare americana. Ma se l'uomo, nel 1963 e 1964 cantava straordinarie canzoni (accompagnato in alcune dalla sua Musa dell'epoca, Joan Baez), nel 1965 indirizzava i suoi strali lirici, con suoni potenti (la chitarra di Mike Bloomfield lanciava note come fossero scintille) ed incendiari. Una nuova strada era stata preparata e lo sguardo non si sarebbe più indirizzato al passato per molti anni. Ma quelle immagini in bianco e nero sarebbero (e sono) rimaste indelebili nella storia della musica e del passaggio epocale del testimone dal mondo degli adulti, quello che aveva vissuto e combattuto la seconda guerra mondiale, e quello che avrebbe voluto cambiare il mondo, percorrendo nuove strade per rendere il mondo a colori... Uno, nessuno, centomila. Tante le strade percorse da un ragazzo arrivato nella Grande Mela con grandi aspettative, molte storie inventate raccontate a destra e a manca, tanto talento, una grande capacità di assorbire tutto quanto gli girava intorno, un pizzico di fortuna, le liriche che gli arrivavano da mondi sconosciuti, tanta conoscenza delle vecchie ballate che diventavano, in alcuni casi, il tessuto sonoro per nuove parole, l'essere l'umo giusto nel tempo giusto. Un uomo imprevedibile e enigmatico che ha "dato la linea" tenendosi, però, sempre alla larga da se se stesso perchè dentro di lui "abitano moltitudini"..

Da qualche sera dopo mezzanotte, essendo un tiratardi, ascolto il vocione dalla "erre" arrotata di Guccini e riascolto parole piene di senso anche estetico oltre che narrativo. Si mantiene forte la capacità di suggestione nel narrare non dell'attività in genere ma dell'uomo nella sua complessità e fragilità. Riascoltare album come "L'isola non trovata" o "Radici", oltre che riportare a quei lontani giorni fatti di sogni e orizzonti di futuro, si rimane come accecati dalla bellezza e profondità di liriche davvero uniche ed indelebili. Ora che il grande saggio è nell'età del crepuscolo non si può che ringraziarlo per la bellezza che ci ha comunicato in una vita di liriche e pensieri mai banali, capaci di scavare nel nostro spirito di sognatori inquieti...

In molti stanno spingendo per la riapertura delle attività produttive. E' giusto perchè il Paese ha bisogno di riprendersi anche e soprattutto dal punto di vista economico visto che la situazione era grigia prima del coronavirus ed è drammatica ora. Bisognerà però farlo con la giusta attenzione per evitare ritorni e colpi di coda di questa pandemia che, oggettivamente, è ancora ben presente viste le centinaia di morti quotidiani. Sarà necessario che vengano messi in campo scelte intelligenti che, senz'altro, non saranno gradite a tutti ma saranno fondamentali per la sicurezza e la salute di ciascuno, oltre che per le condizioni economiche del Paese. Si dovranno scegliere i settori più importanti mettendo la giusta attenzione alle modalità di viaggio dei lavoratori e a quelle di presenza nei luoghi di lavoro. Sarebbe opportuno che le mascherine fossero consegnate dai datori di lavoro che potrebbero fare ordine spuntando prezzi migliori di quelli di un semplice acquirente in farmacia. Sarà importante anche la gestione degli anziani, abili e meno abili, perchè in giro ce ne sono sempre troppi che escono ogni giorno per una spesa di pochi euro, giusto per non stare a casa (non sarebbe opportuno pensare, almeno per i supermercati, una spesa minima quotidiana con uso della tessera punti per la verifica delle presenze?). Importante sarà anche la gestione dei minori perchè se i genitori torneranno a lavoro (almeno per chi ha la fortuna di averlo un lavoro...) chi seguirà questi bambini, ragazzi, adolescenti a casa? Quanto accaduto dovrà rimodellare la nostra vita nei tempi e nelle modalità di gestione del tempo e delle attività. Quando si potrà tornare pienamente alla vita normale? Quando si potrà andare al cinema oppure a teatro? Oppure quando ci si potrà trovare in famiglia in maniera adeguata? Come intervenire con chi ha perso il lavoro o ha dovuto chiudere la propria attività? Come evitare di creare nuovi poveri? Come pensare un nuovo umanesimo che riformi un capitalismo che da almeno un trentennio non è più garante del benessere alle moltitudini che non possiedono redditi adeguati alla propria dignità? E chi ha la responsabilità sanitaria ha programmato interventi per una eventuale recrudescenza del virus? E a coloro che si sono ammalati non sarebbe opportuno fare controlli periodici per verificare che non siano rimasti strascichi sul sistema neuro vegetativo, come accadde al tempo della influenza spagnola? E qualcuno penserà al recupero psicologico degli operatori che hanno lavorato come se non ci fosse un domani, circondati di sofferenza e morte in quantità insostenibili? Siamo sicuri che queste persone non crolleranno sotto il peso della tensione e dello stress accumulato (considerando che lo stress è uno dei fattori che indebolisce il nostro sistema immunitario? E come agire per capire come davvero questo virus abbia potuto riempire il Pianeta in così poco tempo mettendo in ginocchio un sistema che si rivela sempre più fragile? Credo che nessuno possieda verità assolute o uniche ma che la verità stia all'interno di ragionamenti complessi e umili perchè è evidente che nessuno ha la verità in tasca ma, probabilmente, parti di essa e mettendo insieme i componenti del puzzle si potrà giungere, se non alla immediata soluzione (magari...), a definire a livello mondiale una modalità strategica per salvare chi ancora malato, evitare di compiere errori per le prossime aggressioni virali (che ci saranno soprattutto a causa del cambiamento climatico), prevenire ogni possibilità di ritorno del virus con una nuova ondata che sarebbe peggiore della prima, come affermano molti stimati epidemiologi. La sfida è davvero epocale che va accettata con coraggio ma, anche, con persone che siano in grado di prendere decisioni anche impopolari ma a beneficio del futuro di tutti noi. Con la speranza che questi tempi difficili siano stati in grado di farci comprendere che valori come solidarietà, salute, amicizia, famiglia, empatia, responsabilità, sacrificio, altruismo, generosità valgono più del denaro e dei suoi "derivati". Perchè, in fondo, "che gioverà, infatti, all'uomo guadagnare il mondo intero se poi perde l'anima sua...?"

Ci incamminiamo verso un futuro ignoto con accanto migliaia di morti che solo qualche mese fa festeggiavano il Natale ignari che non avrebbero visto la Pasqua, che non avrebbero saluto i propri cari, che sarebbero scomparsi in una sorta di buco nero, risucchiati da un virus che li avrebbe fatti scomparire, ma non dimenticare. In questi anni abbiamo camminato con accanto una crisi economica strisciante, a partire dall’infausto 2008, abbiamo assistito al cambiamento climatico che alcuni deridevano e che oggi, sempre di più, è sotto i nostri occhi e probabile concausa del coronavirus. e’ un tempo ignoto (spesso ignobile…) quello che stiamo vivendo ed ora lo sarà ancora di più. I danni economici che questa pandemia ha evocato sono e saranno di difficile ricomposizione in tempi brevi. Chi già sopravviveva, oggi farà ancora più fatica e si acuiranno le differenze di classe, le differenze di censo e di reddito. I garantiti saranno sempre di meno mentre coloro che vivranno sempre più alla giornata, i non garantiti, i disperati saranno sempre di più e sempre più difficile sarà rendere loro la vita meno difficile o ostile. Quello a cui eravamo abituati probabilmente si tramuterà in qualcosa che ora non è possibile immaginare. La ripresa, da molti anelata (da alcuni anche a sproposito), potrebbe essere efficace da un punto di vista psicologico ma dovrà essere gestita con molta attenzione al fine di evitare che il contagio riprenda con forza (anche se è bene ricordare che 400 e passa morti al giorno, seppure meno di mille, sono sempre tanti…) e che si ricominci la corsa verso una nuova emergenza. E poi, riaprire non significa risolvere perché molti di coloro che sono rimasti senza reddito o che hanno dato ondo ai risparmi devono recuperare le proprie capacità di spesa per poter essere parte attiva alla ripresa. perché una bella vetrina fa piacere vederla, ma se nessuno supera la porta di ingresso rimane un esercizio estetico fine a se stesso…Ma pur nel disastro dobbiamo restare ottimisti ma ripensare ai punti di riferimento di una economia che va ripensata. Viene da pensare, ad esempio, a come oggi molte aziende agricole anelano alla mano d’opera straniera. Quella mano d’opera nascosta e vilipesa, senza diritti, sottopagata, che vive in ghetti di sempiterno pericolo igienico. C’è chi dice che non si può fare di meglio perché i grossisti pagano poco la frutta e la verdura e, quindi, i proprietari agricoli sono costretti “ad arrangiarsi” per le paghe e i diritti…? Beh, quelli un’altra volta. Così non funziona più e non potrà funzionare…Allora è il sistema nel suo complesso che deve cambiare insieme alle priorità.
Oggi si spendono e si spenderanno migliaia di miliari di euro o di dollari per non soccombere al virus e per non soccombere alla crisi economica mentre ieri non si facevano concorsi per le figure mediche e paramediche perché, diceva un coro interessato, non c’erano fondi a sufficienza. In tempi di coronavirus, invece, si sono chiamati “alle armi” medici ed infermieri di qualsiasi età ed esperienza pur che fossero fino alla suprema sciocchezza clinica di immaginare che infermieri nemmeno laureati potessero scendere in campo nelle corsie e nelle terapie intensive dove per formare un infermiere, già esperto, ci vogliono almeno sei mesi…Serietà sobrietà, organizzazione, prevenzione, capacità reali e non “padrinerie” politiche nelle istituzioni delicate quali gli ospedali e le RSA, i luoghi della sofferenza in generale, i luoghi della decisione politica in particolare.
Alcune settimane fa e qualche giorno fa Bob Dylan ha messo in rete due suoi brani inediti. Nel primo declamava una sorta di storia degli ultimi 50 anni mentre nel secondo ricordava che lui (noi) è uno ma contiene moltitudini. Ciascuno di noi è se stesso ma contiene moltitudini: sono coloro che lo hanno preceduto nel suo albero genealogico ma, anche, coloro che hanno preparato il terreno della Storia. ed insieme ad un prima e a un durante l’artista statunitense pare voglia ricordarci che conteniamo moltitudini anche per il futuro. Non roviniamolo a chi verrà dopo di noi…


Nel 1936 un filosofo cattolico francese, Jaques Maritain, scrisse un libro i cui echi rimbombano fino a noi. Il titolo del testo è “Umanesimo integrale” come ricerca di una nuova interpretazione della Storia mentre intorno già iniziavano i rombi di una guerra che avrebbe sconvolto il mondo. La ricerca di un nuovo orizzonte partiva dall’uomo del medio evo intriso di religiosità e di senso della società in lotta tra cielo e terra, tra Dio e Corona. Nella modernità ci sono temi importanti che ancora oggi possono, anzi devono, coinvolgere il pensiero. Uno è certamente l’aspetto comunitario mentre l’altro è la ricerca del bene comune come orizzonte che liberi dai bisogni materiali per rendere possibili, se “graditi” anche sguardi spirituali. Il primato è dato alla persona che però deve fondersi in una Comunità altrimenti il suo sforzo è vano e il predominio è di chi impedisce, per propri fini, il benessere complessivo della società. Oggi, al tempo del corona virus, ci ritroviamo di fronte ad una nuova sfida, al bisogno di rendere possibile l’uscita dall’emergenza partendo da questo semplice assunto: che solo costruendo, essendo, vivendo Comunità possiamo sperare di raggiungere un “benessere” che non sia solo di natura materiale (che male ovviamente non fa), ma travalica la materialità per arrivare, appunto, ad un Umanesimo Integrale che sappia cogliere i bisogni della persona nella sua interezza. Perché siamo fatti per costruire e socializzare mentre la Storia ha fatto del suo meglio per renderci merce, soprattutto in momenti come questi, quando le difficoltà dell’economia riducono il tutto (ma questo avviene anche nei momenti “tranquilli” e allora si finge di non capire…) a una guerra fra poveri; a una guerra tra ricchi; a una guerra globale. Alla fine, come sappiamo, in una guerra totale nella quale le prime vittime sono poveri ed innocenti. Nei mesi scorsi forte è stato il richiamo alla salvaguardia del Pianeta e, paradossalmente, questa sciagura ha mostrato che questi ha migliorato la sua salute a riprova che il problema è l’uomo nella sua organizzazione della Storia, degli eventi, dell’economia. Ora stiamo subendo una doppia lezione: dal Pianeta e dall’evidenza dei nostri limiti. Forse il momento è propizio per capire che senza un nuovo, reale, profondo Umanesimo saremo sempre più deboli ma proprio perché la Storia è maestra di vita credo che ne usciremo. Perché la vita è bella, il Pianeta è una meraviglia ed il Tempo lo dobbiamo amare e godere come un figlio a cui dare un futuro…


Da anni, da decenni, nel mondo musicale del nostro Paese, la presenza di un promoter particolare, speciale, controcorrente, guasta il sonno a molti soloni della musica. Il suo nome è Claudio Trotta, fondatore della Barley Arts con una presenza sul "mercato" dei concerti da oltre 40 anni. La parola mercato è messa tra virgolette perchè quello di Claudio è certamente un lavoro, che svolge con attenzione e precisione, con puntiglio e passione ma, soprattutto una sorta di mission e in favore della musica. Chi lo ricorda soprattutto perchè è il promoter italiano di Bruce Springsteen fa una cosa giusta ed una sbagliata. Quella giusta è che...è così. Bruce si fida di lui e del suo staff e, da decenni, nel momento in cui lui e la sua struttura decidono di partire in tour la telefonata per l'Italia è verso il numero di cellulare di Claudio. Quella sbagliata è che questo signore, dal viso da finto ombroso ma dal cuore tenero, ha organizzato migliaia di concerti (alcuni epocali come "Sonoria" e mi fermo sollecitando solo i lettori a cercare in rete il cast di quella manifestazione...) alcuni dei quali certamente in perdita in partenza, con artisti semi sconosciuti per il solo piacere di fare ascoltare buona musica sulla fiducia e rendere visibili artisti altrimenti ignoti nel nostro Paese. E se queste due situazioni possono apparire "normali" la terza, tenuta da parte volutamente, è quella rappresentata dalla sua battaglia contro il e in luoghi magari non stellari. di ricordando quella contro il Secondary Ticketing, cioè il bagarinaggio telematico. Quel sistema che, con la quiescenza di artisti anche famosi e pubblico, poco intelligente tanto da condividere una "rapina" ai propri danni, lui ha combattuto e combatte in una lotta impari quasi fosse "in missione per conto di Dio" contro chi uccide la musica...
Ma il prologo è funzionale al fatto che ieri Claudio ha partecipato al programma pomeridiano condotto da Lorella Cuccarini su RAI 1 ricordando i bisogni del mondo dello spettacolo al tempo della pandemia. Un intervento come sempre ricco di stimoli ma, purtroppo, ridotto, a causa dei tempi televisivi. Altra cosa, invece, l'intervento al programma via telematica di Red Ronnie (Red Ronnie TV) dove il fondatore di Barley Arts ha potuto spaziare a 380° sottolineando questioni fondamentali per la continuità del mondo dell'arte, della cultura, dell'intrattenimento. Un intervento di straordinaria efficacia nel quale è passato come uno schiacciasassi sulle convenzioni, sulle furberie, sull'incapacità di cogliere le difficoltà di un settore che vede artisti, gestori di teatri, fonici, addetti alle strutture, promoter e quant'altri impegnati in questo settore, alle prese oltre che con la pandemia del virus anche con la pandemia intellettuale e pratica di chi non si rende conto della devastazione che ci sarà quando tutto si sarà chetato, quando torneremo, cioè, ad una parvenza di normalità.
Un attacco vibrante, forte, deciso, passionale ma profondamente vissuto, sentito e sincero da parte di un appassionato di musica che ha deciso, dagli inizi, di stare dalla parte della musica e degli spettatori. Un'innamorato del bello (insieme ad alcuni amici ha fondato Slow Music con cui portare avanti un progetto per rendere consapevoli, anche i più distratti, della bellezza del "fatto" musicale...) che ha sempre rischiato e, spesso, soccombendo ma sempre rialzandosi a combattere. Il suo intervento ha ricordato i "doveri" degli artisti maggiori che oltre che scrivere o aderire a proclami dovrebbero essere più vicini a quel mondo che lavora con e per loro. Ha ricordato i milioni di euro e dollari "guadagnati" dai gestori del Secondary Ticketing che ben si guardano dall'intervenire a supporto della filiera della musica.
Ha segnalato il fatto di che non sia nota la struttura della task force governativa costituita per la gestire la ripresa, non sapendo, quindi, se all'interno vi siano figure che conoscono il mondo dell'intrattenimento e della cultura ed i relativi problemi. che assillano ed assilleranno per mesi miglia e migliaia di lavoratori. Perchè quando assistiamo ad un concerto noi spettatori osserviamo, giustamente, il palco ma non ci rendiamo conto del mondo che vi ruota intorno spesso costituito da lavoratori a tempo determinato che lavora se ci sono spettacoli altrimenti non incassa nulla (e già quando incassa....). Ha rappresentato il fatto che la chiusura della stagione dei concerti rappresenta un danno enorme per le piccole realtà che hanno sempre lavorato in circuiti dove le grandi cifre non erano contemplate ma anche le piccole consentivano di vivere con dignità. Ai promoter ed al mondo circostante ed ai musicisti.
Cercate l'intervista su Red Ronnie tv. E' ancora disponibile in rete e se volete ascoltare quello che ha detto Claudio potrete iniziare dalla seconda ora di trasmissione. Ascolterete un fiume in piena...Un fiume impetuoso che si spera possa travolgere le barriere che ora tengono prigioniera la musica...E' una battaglia, questa, che va sostenuta. Al di là della persona di Claudio che, pure, bisogna dargliene atto, da sempre rischia di suo. Con la faccia, come si suol dire, ed il portafoglio...


Un'infermiera in forza all'Ospedale San Carlo di Milano si è tolta la vita. Era ancora giovane. Non è la prima in tempi di corona virus. Li chiamano eroi ma sono allo sbaraglio. Non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Non chiamateli eroi perché così è più facile assolvere la propria coscienza. Chiamateli naufraghi in cerca di un approdo...

Credo che questo virus sia ancora di difficile comprensione x la scienza. Si legge che chi né è colpito assume l'immunità ma poi si legge che alcuni dei guariti si riammalano. Taluni sono stati a concerti, feste, luoghi chiusi prima della chiusura e non si sono ammalati mentre altri sono stati attenti e scrupolosi eppure hanno contratto il virus. Senza entrare in sterili polemiche non avendo competenze pare di capire che troppe informazioni o "dogmi" sono smentiti in pochi giorni. E poi virologi, specialisti onnivori che tutto sanno, o presumono di sapere, talk show a storidire con tutto e il contrario di tutto. Attorno, però, la morte, quella vera; quella brutta della cianosi. Anziani, di mezza età, anche giovani. Ricchi e poveri, medici, infermieri, sacerdoti. E non aggiu giamo altro immaginando la strage nelle RSA. E poi...c'è il farmaco che...ci vogliono tot milioni di mascherine...ci sono ma una larga percentuale sarebbe non conforme. E il caccino: c'è...non c'è...non ci sarà come ancora non esiste un vaccino contro l'HIV. E sono.passati 40 anni. Bisogna fare un po' di giustizia al silenzio. Che gli scienziati lavorino e si confrontino tra loro e poi facciano sintesi. Che chi deve prendere decisioni politiche lo faccia confortato dalla scienza e dalla prudenza. Chi deve riaprire le attività lavorative lo faccia rispettando la salute dei lavoratori e questi non prendano d'assalto bus, metro, tram perché l'azzardo.puo' costare molto caro. Per sé, per gli altri, per i propri cari. E finalmente si cerchi si immaginare un mondo diverso perché quello della produzione x il consumo x dare lavoro non funziona più da molto tempo e tutti si fa finta di niente sperando che qualunque cosa negativa non capiti a noi. Ma questo virus ci ha fatto capire che nessuno è immune e che tutti possono essere contagiati e morirne. Quando nelle RSA muore il 35% degli ospiti in due mesi il confine di ciò che è accettabile e di ciò che non lo è diventa troppo sottile x continuare a reggere. La soluzione sta in capo.alla scienza. Poi alla politica, poi a tutti noi. Ma se non cambierà nulla dopo questo segnale che dimostra la nostra fragilità perché il Pianeta dovrebbe accettare ancora la mostra presenza...?

Il Comune di Milano sta organizzando la ripartenza della città. Sarà un periodo ovviamente difficile. Secondo i numeri indicati dal Sindaco tra entrate mancanti e impegni di spesa il bilancio ne soffrirà per circa 400 milioni di euro. E per una città come Milano che nelle ultime due consigliature aveva ridotto l'indebitamento del 10%, diventando uno dei comuni più virtuosi del Paese, sarà un duro colpo. Anche perchè direttamente impegnati in grandi opere quali la M4, i prossimi prolungamenti delle linee metropolitana, l'acquisto, tramite ATM, di centinaia di mezzi di nuova generazione e a trazione elettrica, nella riqualificazione di tutti gli appartamenti vuoti (previsti entro la fine del mandato in circa 3.500) di proprietà comunale, della riqualificazione delle scuole e in tanti altri progetti. Un colpo durissimo che lascerà il segno soprattutto sui ceti meno abbienti, ovviamente, ma anche e soprattutto a chi ha perso o perderà il lavoro, per i bar ed i ristoranti, per gli artigiani, per i lavoratori e i datori di lavoro che perderanno chi il lavoro e chi l'attività. Una situazione che potrebbe mettere in crisi gli investimenti immobiliari che erano stati previsti in 13 miliardi di euro per i prossimi 5 anni. Milano era diventata una città attrattiva e bastava tentare di andare in Galleria nelle passate festività natalizie e fare fatica ad attraversarla per comprendere la forza e la dinamica di questa città. Bastava aver seguito le iniziative per la ricorrenza della strage di Piazza Fontana ed il riconoscimento della città a Giuseppe Pinelli per comprendere come il vento fosse cambiato. Era sufficiente aver partecipato alla marcia dei Sindaci con il discorso in piazza delle Scalala del Sindaco e di Liliana Segre per avere la dimensione della forza civile emanata da questa città. E adesso...?
Adesso, forse, potrebbe essere interessante riavvolgere il nastro della Storia e tornare al 15 Dicembre del 1969, una data di cui molto si è parlato proprio nella ricorrenza del 50° della Strage di Piazza Fontana. La mattina dei funerali delle vittime a quel momento. La mattina della nebbia e del silenzio, la mattina in cui almeno 250.000 persone affollarono "La Piazza" rendendo plasticamente manifesta la presenza della città, della classe operaia, dei ceti produttivi, della città tutta, quella sana e democratica. Quella folla, quel popolo, era lì, orgogliosamente attonito ma fortemente deciso a garantire la democrazia. Mi rendo conto che il paragone con eventi, tempi, situazioni storiche e sociali potrebbe essere fuori luogo ma anche oggi è come se fosse esplosa una bomba. Non l'ha deposta una mano fascista con la collaborazione di menti oscure che lavoravano contro il nostro Paese ma una mano altrettanto oscura quale può essere la natura quando prende il sopravvento sull'uomo (anche se l'uomo ci mette sempre del suo...come la distruzione dell'ambiente in corso...). Questa boma è esplosa e di morti ne ha fatti davvero tanti, di feriti moltissimi e di possibili vittime economiche futuro ce ne sono tantissime all'orizzonte. Di medici capaci di sfornare ricette quotidiane per "questo o quel malanno" ce ne sono tanti, troppi e non mi aggiungerò al novero. Però è necessario che ciascuno possa, sappia e debba fare la sua parte per ricostruire il tessuto lacerato della città (e del Paese) perchè le povertà saranno tante, le tensioni molte, le preoccupazioni infinite, le paure traumi di difficile soluzione o linimento. Ci vorrà tanta sapienza, tanta capacità di programmare, tanta collaborazione da parte di tutti. Oggi c'è chi, politicamente, riesce anche a dare contro il Sindaco di Milano perchè la città, a loro dire, non sarà in grado di assolvere ai suoi compiti. Però, purtroppo, non si affaccia sullo scenario mondiale cercando di osservare cosa accade nell'America First Again dell'ineffabile Presidente che sa solo accusare la Cina e, nel frattempo, consigliare iniezione di disinfettante per distruggere il virus. Oppure si finge di non sapere che sono le Regioni ad avere la responsabilità della sanità e quello che è accaduto negli ospedali e nelle RSA è di una gravità assoluta i cui responsabili dovranno renderne conto anche in funzione delle percentuali fuori controllo delle vittime rispetto ai contagiati.
Ci vorranno nervi saldi, onestà politica, capacità scientifica, interventi economici reali, rapidi, efficaci, responsabilità di tutti. "Nessuno deve restare indietro" è una frase piena di speranza, intensa e piena di futuro. Ma non deve rimanere uno slogan altrimenti "chi sta sotto" esploderà ed insieme, esploderà il Paese per la gioia di tanti, anche di molti Paesi oltreconfine, che dalla fine della seconda guerra mondiale ci hanno messo sotto tutela per almeno un quarantennio (il caso Mattei ed il caso Moro possono insegnare tanto sul tema...). Dobbiamo venirne fuori costruendo un nuovo Rinascimento. Ce l'abbiamo fatta altre volte. Non sarà facile ma dovremo...

Italia – Germania: 4 a 3…Ieri sera pensavo alla prossima riapertura della città…ormai ci siamo. Con moderazione e prudenza, ma lunedì si inizierà una nuova fase di vita ed osservazione degli eventi. Allora, intorno alle 23, quando i ragionamenti diventano sempre più complicati da seguire, ho avuto come un flash back e sono ritornato indietro nel tempo, alla notte tra il 17 ed il 18 di Giugno del 1970. Ai quasi tredici anni, al grande cortile di Via Mar Nero, dove sono cresciuto e dove hanno abitato tanti dei miei amici, molti dei quali ancora presenti nel quartiere. Altri magari lontani ma sempre radicati in quello spazio fatto di un cortile su cui si affacciavano tante abitazioni, famiglie, speranze (per la verità i cortili erano due: per il civico 8 ed il civico 6). E poi, a fianco, l’oratorio ed i campi ancora coltivati a dimostrazione che si abitava, come cantava Guccini, “tra la via Emilia e il West”. Da quella immagine in bianco e nero è scaturita una scintilla: quella era la notte della partita del secolo, Italia – Germania: 4 a 3, giocata in uno stadio Azteca, a Città del Messico, colmo all’inverosimile. La nostra Nazionale, che pur possedeva grandi campioni, arrivò a quella partita un po’ zoppicante: una vittoria per 1-0 contro la Svezia e poi due 0-0- scialbi con l’Uruguay e Israele…Il colpo di fulmine fu la vittoria contro il Messico, 4-1, dopo essere passati in svantaggio. E poi…e poi la partita contro la Germania. Oramai il pensiero si era fatto realtà e così mi sono ricordato che in casa, da qualche parte, vi era la disponibilità del dvd con la partita e, nonostante l’ora (ma per i nottambuli non c’è mai un’ora per andare a dormire…) io e la mia regressione all’adolescenza abbiamo deciso di guardarla e come un sogno sono giunte le grida del tifo dai balconi che quella sera si scatenò in cortile. Un tifo spontaneo, un tifo inatteso, un tifo semplice ma profondamente sentito. Perché era come la il grido della rivolta di Spartaco contro la schiavitù: quella di sentirsi inferiori, in genere, rispetto agli altri e, calcisticamente, nei confronti della Germania.
Quella Germania che aveva perso, immeritatamente, la finale del 1966 contro l’Inghilterra, a Wembley, con un gol che fu ampiamente contestato e che, millimetricamente, non c’era. Ma erano altri tempi e la tecnologia certamente non aiutava… Su quei balconi da cui si affacciavano ragazzini, giovani ed adulti, c’era il nuovo mondo dell’emigrazione, c’erano tutte le regioni del sud ma, anche, veneti, friulani, anche tanti milanesi allontanati dalle vecchie case del centro. Era (ed è tutt’ora) un quartiere di case del Comune (case popolari, si diceva allora…) con famiglie giovani i cui figli, oggi, sono pensionati o pensionandi perché il tempo spegne tutto o, meglio, trasforma. Non era ancora esploso il fenomeno della tossicodipendenza, che tanti danni avrebbe fatto a più di una generazione, ma il ’68 quello si, aprendo il pensiero a mondi diversi e sconosciuti. L’epopea dei Beatles si era conclusa con la dichiarazione di Paul Mc Cartney del 10 Aprile e Bob Dylan, che veniva definito il cantore di una generazione, si era ritirato da anni in una sorta di limbo auto imposto. Era esploso l’Autunno caldo, portando alla ribalta un mondo nuovo: quello dei lavoratori che si erano stancati di essere sempre sullo sfondo della storia e avevano deciso di farsi sentire. Il terrorismo era ancora lontano ma lo stragismo quello no, quello aveva bussato proprio alle porte di Milano con la Strage per antonomasia: quella di Piazza Fontana di cui lo scorso anno abbiamo ricordato il 50° alla presenza del Presidente della Repubblica.
Si era nel periodo della crescita e dei sogni, il periodo in cui c’era poco da scialare ma, bene o male, c’era per tutti. Era il tempo, per noi ragazzini, della spensieratezza: il cortile, l’oratorio con le interminabili partite di calcio, l’orizzonte dei campi che ti davano un senso di infinito. I problemi, se esistevano, erano preoccupazioni altrui, non certo nostre. Si era in tanti e si formava una piccola comunità selezionata per età. Poche commistioni con chi aveva più anni (o meno) del gruppetto in cui si stava. E una linea quasi invalicabile tra maschi e femmine: troppo diversi gli interessi a quell’età. Solo qualche commistione sotto i portici dei palazzi nei giorni di pioggia quando uscire di casa era, comunque, un imperativo per sfuggire agli obblighi di “legge” (hai studiato…? hai iniziato a fare i compiti delle vacanze…? Guarda che questa casa non è un albergo e tutto il repertorio noto a tutti…).
Ma quella sera era tutto diverso, c’era qualcosa nell’aria che pareva avesse una sorta di parola d’ordine. E questa parola era “riscatto”. Un riscatto dalla guerra e dal dopoguerra. Un riscatto dei nostri migranti in Germania (ma non solo) che avevano lasciato casa e affetti per andare a lavorare in paesi dove anche la lingua era aspra come quel pane sudato. Un riscatto verso le migrazioni interne che avevano dato lavoro e speranza a milioni di italiani ma, comunque, rimanevano sempre una ferita nell’animo di molti. E di feriti incollati alle tv ed affacciati a quei balconi ce n’erano davvero tanti quella notte (già, perché la partita fu trasmessa in diretta e in Italia era la mezzanotte e teoricamente tutti avrebbero dovuto essere a letto. Ma faceva caldo, le finestre erano aperte e, comunque, il volume dei televisori avrebbe portato la telecronaca dovunque…
Avevamo una squadra forte, ma non lo sapevamo perché, come spesso accade, ci riteniamo inferiori (o superiori, dipende dai campi…) e, per decenni, abbiamo visto “l’estero” come una meraviglia, dimenticandoci di osservare, ad esempio, la grandiosità di una Piazza della Signoria a Firenze, oppure della Basilica di San Pietro o del nostro Duomo…Ma noi italiani siamo così: un po’ spacconi nelle banalità ed incapaci, spesso, di avere l’orgoglio che meritiamo di esibire. E quella sera eravamo un po’ così. Intimoriti (e quella Germania era davvero una grande squadra) e alla ricerca del minimo indispensabile per non fare una brutta figura. L’asso nella manica che immaginavamo di avere (e che asso…) era un migrante molto particolare che dalla Lombardia andò, giovanissimo, a giocare in serie B con una squadra del sud (anche se la Sardegna non è sud ma lo è così considerata per le condizioni economiche che, oggi come ieri, ne assillano la storia…). Quella squadra andrò in serie A proprio grazie a un migrante di Leggiuno, all’anagrafe Luigi Riva, per Gianni Brera “rombo di tuono” e per i sardi, che lo adorarono e ancora lo ammirano perché non solo li portò a vincere il loro unico scudetto ma rimase sull’isola da giocatore e dopo l’addio al calcio, divenne l’invincibile “ggiggirrivaa”. L’Italia aveva “quel migrante lì”  a fare paura alla Germania. E non solo gli fece paura…gli fece anche gol.
Quell’Italia aveva Boninsegna soprannominato, sempre da Gianni Brera, “Boninba”; un centravanti strepitoso, coraggioso e determinato. Che ne prendeva e le dava. Oh, se le dava...Poi il libero, Cera, un geometra perfetto che sapeva impostare l’azione partendo dalla difesa. De Sisti, detto “Picchio”, che aveva i piedi buoni anche se un po’ lento, ma di palloni ne perdeva pochi. Bertini, mediano roccioso, ruvido ma efficace; Rosato, un gladiatore d’area che uscito lasciò il posto a Poletti che tanto ci fece impazzire (e non di gioia…). Poi Albertosi, il portiere, che in quella partita dimostrò di avere uno colpo di reni di incredibile efficacia. E come dimenticare Domenghini, un calciatore completo che avrebbe potuto giocare nell’Olanda dei marziani. Poi la coppia Burgnich e Facchetti, rodata da mille battaglie difensive con l’Inter del Mago Herrera. Come non ricordare, infine, gli uomini della famigerata staffetta, cioè Mazzola, il figlio del leggendario Valentino, insieme a Giuseppe Meazza il più grande calciatore italiano di tutti i tempi e Rivera, un campione dalla classe purissima. Era una squadra davvero forte e potente e non lo sapevamo, perché l’Italia “è questa roba qui”: diventa forte, cade, si rialza e vince, proprio quando non te l’aspetti, quando l’emergenza ti sovrasta, quando pare che ogni sforzo sia inutile che la partita sia persa. Nello specifico, poi, sempre dovremo essere grati ad un tedesco, ad un difensore di grande classe, ad un “milanista” (questa era la sua bandiera dell’epoca…) che fece ammutolire un intero Paese che già pregustava la vittoria…Karl Heinz Schnellinger, il suo nome. Un difensore di cui gli annali non ricordavano né riportavano alcun suo gol. Perché…? Perché non superava mai la metà campo…Ma proprio quella sera, invece…
Intanto le immagini scorrono sul video e si vede questo grande stadio pieno di spettatori. Tanti tedeschi e tutti i messicani a fare il tifo per la compagine teutonica. Perché…? Già, perché avevamo eliminato la loro Nazionale e per chi organizza la competizione non è certo il massimo…E poi nel ’68 in Messico c’erano state le Olimpiadi e la strage di Piazza delle Tre Culture (come ben raccontò Oriana Fallaci, presente in quella piazza di strage e colpita da tre proiettili dell’Esercito. Cosa che nemmeno nei suo anni in Vietnam. Ma questa è un'altra storia….) e bisognava confermare al mondo che la situazione era sotto controllo. Le immagini scorrono e vediamo, all’ottavo minuto del primo tempo, Boninsegna prendere la palla a trequarti di campo verso l’area avversaria, fare una triangolazione con Riva e poi scagliare una saetta delle sue verso l’angolo destro del portiere Maier: è un attimo e il Paese, un po’ sonnecchiante data l’ora, si avvede che qualcosa di potente sta accadendo.
Siamo in vantaggio contro la grande e granitica Germania. Quella di Beckembauer, elegante e statuario, di Muller che non si capisce come faccia a correre e a stare in piedi e che, invece, diventerà uno dei più grandi cannonieri della storia del calcio. E poi Seeler, di età indefinita, che gioca come il campione che è. E ci sono anche Held e Grabowsky,  poi Vogts, un mastino feroce. E lui, Karl Heinz… 1-0 e non ci sembra vero. E’ in quel preciso momento che il cortile dei migranti interni, di coloro che vivono, sanno vivere con il poco che gli basta, sentono che una sorta di riscatto quella sera sta bussando alla porta di tutti loro. Anche di coloro che di calcio non se ne intendono né sono interessati. Lui, Boninsegna, mantovano figlio di un operaio metalmeccanico, che Herrera non fece giocare, giovane promessa, nella Grande Inter perché, secondo lui “aveva il culo basso” (come Maradona, Pelè, Puskas, Messi…). Lui, indomita spalla di Riva nel Cagliari ed ora punta di diamante dell’Inter per un ritorno a casa pagato profumatamente dalla squadra milanese che cedette al Cagliari Domenghini, Poli e Gori…Da quel momento tutti a guardare la partita con rinnovato interesse e vigore, bevendo caffè di cui si perdeva il conto, le grida fuori dai balconi, le porte aperte sui pianerottoli, un insieme di persone che, per una volta, si scopriva Comunità. E mentre la partita proseguiva cresceva il desiderio che tutto finisse in fretta per andare in finale, di lì a breve, per misurarsi con una nuova sfida ora che ci sentivamo più liberi, più forti, più decisi, meno intimoriti dal timore di esserlo…Ma poi, proprio quando il miracolo pareva compiuto, quando ogni tassello pareva essere andato al suo posto, quando ogni paura era svanita, quando il Brasile stava apparendo per la finale ecco l’imprevisto, ecco il momento in cui i sogni si sbriciolano…Ecco il caso che arriva e ti colpisce a tradimento. Schnellinger, che non superava ma i la metà campo, la superò…Voleva avvicinarsi verso gli spogliatoi, tanto la partita era finita. Anzi, era oltre il secondo minuto di recupero…Ma Held prese la palla e la passò a Grabowsky che scattò lanciando un preciso cross di sinistro. Lui, Schnellinger, era lì, in mezzo all’area di rigore, solo, indisturbato, forse anche sorpreso. Si lanciò colpendo in maniera strana, con il destro, il pallone sorprendendo Albertosi, il nostro cortile, un Paese intero. La partita finì in quel momento. La Storia iniziò in quel momento. Nel cortile, dopo il primo grido di dolore e di stupore, il volume dei televisori aumentò. Adesso bisognava farsi forza guardando l’orologio. Ce ne sarebbe stata fino alle due e un quarto e oltre…Ora l’Italia avrebbe dovuto mettersi nelle condizioni di resistere e avere fiducia.
Il primo tempo supplementare iniziò con un moto di timore. Loro erano forti e noi demoralizzati. La staffetta Mazzola-Rivera aveva funzionato solo in parte (avevamo due fuoriclasse e in Nazionale non giocavano insieme…). Si riprese con una certa apprensione e la paura fece un brutto scherzo a Poletti che, su un pallone lanciato in area, di testa e da fermo da Seeler, intervenne in maniera maldestra permettendo a Muller, lui, con il fisico del non attaccante, di inserirsi fra il difensore ed Albertosi facendo scivolare la palla in rete. Lentamente, mentre il Paese idealmente soffiava per impedire che varcasse la linea ma, inesorabile, la palla la superò e tutto il cortile, tutto il Paese rimase in silenzio. Un silenzio pieno di timore quasi fosse una sorta di Caporetto del calcio…C’erano le premesse per il crollo…Ma così non fu…Baldanzosi e decisi i nostri tornarono all’attacco ed avvenne la nemesi di quanto era accaduto pochi minuti primi. Tarcisio Burgnich, un difensore (e uomo) straordinario, anch’egli non avvezzo a superare la metà campo, si incamminò verso la porta avversaria mentre Rivera aggiustava la palla per calciare una punizione. Rivera lanciò la palla, forse destinata a Riva. Un difensore respinse malamente di testa e lui, “la roccia” di Ruda, nel Friuli, colpì la palla al volo, di sinistro, e dal centro dell’area uccellò (come avrebbe scritto Brera) il portiere tedesco. Era il giusto premio ad un’Italia che era stata beffata proprio sul filo di lana. Ma ora si era nuovamente alla pari. Si ripartiva a pari dignità e sull’onda di quel goal, di quel pericolo ricomposto, la Nazionale si portò avanti spinta dal boato proveniente dal cortile e dal Paese e su quell’onda Rivera, ancora lui, passò la palla all’instancabile Domenghini che la lanciò verso Gigi Riva, che l’arpionò, la pose sul suo sinistro magico scagliandola verso l’angolo alla sinistra di Maier. Che non ci arrivò mentre l’Italia intera si alzava in piedi esultando e dai balconi di quel cortile arrivarono grida di gioia e di tripudio, oltre che alle grida di “Italia, Italia, Italia” scandito picchiando anche sul metallo dei balconi…La gente aveva ormai il batticuore mentre l’umidità della notte entrava, con le zanzare, in tutte le case. Eravamo, come sempre, un Paese in ansia.
Il primo tempo supplementare era terminato. Mancavano solo 15 minuti al termine del supplizio e circa un mese e mezzo alla chiusura per ferie del Paese. Chi sarebbe andato al mare, in colonia o con i genitori. Chi al paese natio a trovare genitori e parenti. Chi sarebbe rimasto a casa a gironzolare in cortile oppure in oratorio dove, contrariamente alla nota canzone, c’era sempre “un prete per chiacchierar…”. Pronti via, il secondo tempo supplementare iniziò nel silenzio surreale di quella, ormai, mattina di inizio estate. L’Italia c’era ma anche i tedeschi…e correvano, correvano…ed un cross insidioso partì dalla destra, la palla giunse sulla testa di Seeler (ancora lui) che la indirizzò verso la porta e lui, Muller, ancora lui, saltò e la deviò leggermente mandandola sul palo alla sinistra di Albertosi, laddove era piazzato Rivera, che non era, lo sappiamo tutti, un difensore. E la guardò, quella palla, scivolargli sul fianco sinistro, inerme, senza che potesse farle cambiare direzione. La guardammo tutti, milioni di italiani, in silenzio, in religioso silenzio. E non proferimmo parola perché troppa era la delusione di quel momento. Albertosi pronunciò, probabilmente, parole irripetibili a Rivera, il Golden Boy del Milan e lui, altrettanto probabilmente, disse di non preoccuparsi, che avrebbe scartato tutti i tedeschi ed avrebbe fatto il goal del 4 a 3. Si era, ormai, nella piena condizione in cui la delusione, la stanchezza ed il minore ossigeno presente a quelle altitudini avrebbe potuto fare pronunciare qualunque parola e nessuno avrebbe avuto da ridire. La partita stava per terminare sul 3 a 3. Poi ci sarebbero stati i rigori…Altra tensione per un Paese ormai sulle spine e “disperato”. Palla al centro, scambi rapidi…Palla a Rivera che la passa a De Sisti. Non avrebbe scartato nessuno, non c’era più forza nelle gambe per poterlo fare. La palla arrivò a Facchetti e lo vide…Vide Boninsegna scattare alla sua sinistra e gli lanciò un pallone millimetrico. Lui lo prese sotto la sua custodia e corse verso la porta. Lo difese da Vogts che cercò di rubarglielo o, alla peggio, di farlo cadere. Ma lui, il mantovano fatto di roccia, non si fece né rubare il pallo ne né disarcionare nella corsa. Volò veloce, quasi che la partita fosse appena iniziata, e corse con la testa bassa ma questo non era importante perchè aveva già visto tutto. Sapeva dove era posizionato Rivera. Lo sapeva e basta. I tedeschi no, ma lui SI e di sinistro lanciò la palla, rasoterra, in area tedesca, praticamente sul dischetto del rigore. E lui, Il Golden Boy si fece trovare pronto, con tutta la sua classe indelebile, e toccò di piatto destro mentre Maier, spiazzato, cercava, torcendo le gambe, di arrivare a toccare il pallone. Ma così non fu…giunse il 4 a 3 e fu leggenda…Nel cortile ci fu un urlo solo, una voce sola, un canto corale: “Gooool…!” gridarono centinaia e centinaia di voci. E quel grido rimbalzò in mille cortili, in milioni di case. Proruppe da milioni di voci, uscì dalle valigie di cartone riposte nelle cantine e nei solai a ricordare chi eravamo e da dove arrivavamo. Proruppe dalle voci dei lavoratori a cui si voleva tenere stretta la sordina, proruppe dalle case rurali del sud e dagli attici milanesi. Proruppe dai giovani “rivoluzionari” che si stavano preparando a cercare di cambiare il mondo (ci riuscirono…? Mah…).  
La partita terminò in un tripudio festante proveniente dai cortili e poi si trasferì, per la prima volta nella storia, nelle strade e nelle piazze rendendo possibile una sorta di catarsi dove non esistevano più differenze, di censo, di classe, di censo o politiche. Probabilmente quello fu un momento dove venne delineato un “prima e un dopo”. Fu la vittoria di una nazione contro il proprio vittimismo e la propria incapacità di organizzarsi. Come sempre fu la vittoria della volontà. Poi venne la sconfitta con il Brasile (inevitabile vista la formazione di quel Brasile). Poi vennero gli anni di piombo, l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta (il golpe nascosto di potenze straniere), la strage di più generazioni con le dipendenze dalle droghe, le stragi mafiose, le guerre di Camorra, l’ascesa della ‘ndrangheta, i terremoti di Friuli, Irpinia, Umbria, Abruzzo con diverse situazioni, la distruzione del sistema dei partiti con la Seconda e Terza Repubblica (o sempre la stessa con vesti diverse…?). Sarebbero arrivate la globalizzazione e la grande recessione del 2008. Saremmo stati spettatori ed attori della rivoluzione degli algoritmi e avremmo sentito parlare (ed agire) del riscaldamento globale con la possibile estinzione all’orizzonte. E poi avremmo incontrato Lui, il coronavirus, a minacciare con le morti, ad incombere con la sua presenza invisibile, a seminare il terrore di ciò che potrebbe ulteriormente accadere. Ora che stiamo per uscire dal tempo sospeso nel quale siamo da oltre due mesi possiamo idealmente immaginarci in quel campo di calcio, dove tutto ci è ostile: il pubblico, l’arbitro (si, anche l’arbitro), la stazza e la grinta dei tedeschi, le nostre immancabili diatribe (Mazzola o Rivera? Guelfi o Ghibellini?), le nostre paure di essere inferiorità. Allora, ora che andiamo a riaprire, pensandoci in quel campo prendiamo esempio da Boninsegna: attesa la palla, la difese, la portò avanti con caparbietà, la passò al compagno che nessuno curava e questi fece goal. Un gioco di squadra dove i compagni non sono “nemici” ma parte di una stessa sorte. Quella su cui dobbiamo scommettere a partire da lunedì. Perché come vincemmo la partita impossibile grazie a quel guizzo inaspettato, così vinceremo anche questo. Ma dovremo essere uniti e responsabili. Giocare bene il pallone dell’opportunità per avere l’orizzonte del futuro…       

“I Contain Multitudes” è l’ultima canzone non ancora pubblicata da Bob Dylan ma resa disponibile in rete sul suo sito. Una canzone che riprende un verso di Walt Withman, il cantore della modernità di fine Ottocento, la modernità di un tempo che sperava di migliorare la condizione umana ma, come ben racconta la storia, era solo la maschera per nascondere la rapina di un continente a discapito di chi lo abitava da millenni. Spagnoli, Inglesi, Francesi e poi “americani” hanno depredato un continente e sterminato i nativi. Non gli indiani, non i pellerossa ma i nativi, cioè coloro che possedevano luoghi, culture, acque. suolo, bisonti e sottosuolo. Incapace di vivere in pace, l’uomo bianco, parlò con lingua biforcuta e mentre parlava di pace affilava le armi della guerra e dello sterminio. Riprendendo, allora, quei versi del poeta americano, Dylan ci prende per mano e all’augusta età di 79 anni (ormai ci siamo) ci rende dono di questo viaggio dove, forse come avvenuto per “Murder Most Foul”, ci fa avvicinare alla sua persona ed alla sua intimità.     
Oggi, e domani e anche ieri
I fiori stanno morendo come tutte le cose
Seguimi da vicino, vado a Bally-na-Lee.
Diventerò matto se non vieni con me
Sistemo i capelli e combatto le faide di sangue
Ho molte sfaccettature
Ha un cuore rivelatore, come il signor Poe ,
Ho scheletri nei muri delle persone che conosci
Brinderò alla verità e le cose che abbiamo detto
Brinderò all’uomo che condivide il tuo letto
Dipingo paesaggi e dipingo nudi
Ho molte sfaccettature
Una Cadillac rossa e baffi neri
Anelli sulle dita che brillano e luccicano
Dimmi, Oras che si fa? Che dobbiamo fare?
Metà della mia anima, baby, appartiene a te
Sono spensierato e me la spasso con tutti i giovani
Ho molte sfaccettature
Sono proprio come Anne Frank, come Indiana Jones
E quei cattivi ragazzi britannici, i Rolling Stones
Mi spingo fino al limite, vado fino in fondo
Vado proprio dove tutte le cose perse vengono rimesse a posto
Canto le canzoni dell’Esperienza come William Blake
Non ho scuse da fare
Tutto scorre nello stesso momento
Vivo sul viale del crimine
Guido auto veloci e mangio cibi veloci
Ho molte sfaccettature
Pink pedal-pushers, jeans rossi
Tutte le belle cameriere e tutte le vecchie regine
Tutte le vecchie regine da tutte le mie vite passate
Porto quattro pistole e due grandi coltelli
Sono un uomo pieno di contraddizioni, sono un uomo da molti stati d’animo
Ho molte sfaccettature
Ingordo vecchio lupo, ti mostrerò il mio cuore
Ma non del tutto, solo la parte odiosa
Ti venderò lungo il fiume, metterò una taglia sulla tua testa
Cosa posso dirti di più? Dormo con la vita e la morte nello stesso letto
Sparisci, signora, alzati dal mio ginocchio
Tieni la bocca lontana da me
Lascio la strada aperta, la strada nella mia mente
Farò in modo che non ci sia più amore
Suonerò le sonate di Beethoven e i preludi di Chopin
Ho molte sfaccettature
Sono parole di un uomo che vede il tramonto avvicinarsi oppure parole per irretire, ancora una volta, l’ascoltatore? A ciascuno la sua risposta. La stranezza è la presentazione di due brano inediti senza annunci e senza album in arrivo. Ma lui è Bob Dylan, l’umo portato dal soffio del vento e al tempo del coronavirus anche le sue parole possono essere un balsamo di speranza. Perché il tramonto sia ancora da venire e perché ciascuno sappia essere giorno a se stesso…
“I can’t breathe…”. Questo lo slogan che sta dilagando in queste ore in tutta l’America. Contro l’eterno virus del razzismo ma, anche, come grido di liberazione contro una gestione fallimentare del coronavirus che ha fatto più morti in tre mesi della guerra di Corea e di quella del Vietnam. Certamente in mezzo ai dimostranti ci sono malintenzionati che ne approfittano per regolare conti con nemici e con la Polizia, ci sono soggetti che approfittano della situazione per creare condizioni di disordine che possono essere “positive” per i propri “interessi” ma, alla radice di tutto c’è il malessere di un Paese che è alle prese con le proprie contraddizioni e non riesce a superarle. Un Paese nato sul “furto” delle terre ai nativi, un Paese cresciuto con lo sterminio di chi abitava quei territori. Un Paese violento e con l’ossessione del denaro e del successo dove pochi sono straricchi, pochi sono ricchi, molti sono sempre in bilico e moltissimi sono poveri e sempre a rischio, tra le carenze del sistema sanitario, l’uso smodato di farmaci, di stupefacenti con particolare attenzione alle morti a causa dell’uso del  Fentanil, un antidolorifico che falcia decine e decine di migliaia di persone ogni anno. L’America non può respirare e il suo Presidente ne ha fatto emergere gli aspetti peggiori con, anche, il suo ondivago porsi obbiettivi validi ora e smentiti subito dopo. Un Presidente che ha sostituibile tutti i suoi collaboratori mettendo in pericolo la stessa sicurezza nazionale. Un Presidente che ha deciso di stringere al collo il suo Paese in maniera figurata che, ora, sta divenendo anche reale. Non sappiamo dove condurrà questa situazione esplosa a causa dell’ennesimo omicidio senza ragione ma solo per “dimostrare” un potere verso chi è ritenuto “inferiore”. Un potere che abusa della sua forza ed anziché essere responsabile genera sopruso, morte, ingiustizia, rancore, vendetta ed altro dolore.
“Non posso respirare” dice l’America ma anche chi entra nello stadio acuto del coronavirus dove il respiro inizia a mancare, dove si percepisce la mancanza d’aria, di ossigeno, di forza vitale. Dove tutto si offusca e inizia a diventare sfumato, lontano, colmo di una paura che racconta e raccoglie disperazione. Dove lo sguardo è l’unica fonte di comunicazione prima di perdere conoscenza oppure prima di essere sedati per poter fruire della terapia intensiva. Un intervento estremamente delicato che, soprattutto nella persone di età matura lascerà, qualora sopravvissute al virus, un segno per tutta la vita. La mancanza di respiro è anche quello che si percepisce in questa società incapace di “convertirsi” di fronte alla catastrofe ambientale che incombe, che è reale, che ha forse mostrato il suo volto con questa pandemia che ci ha trovato deboli, impreparati, incapaci di capire che cosa stava accadendo. Che ha faticato a trovare modalità di lavoro comune lasciando che ogni Paese andasse per la sua strada, che ha cercato colpevoli altrove anziché comprendere le proprie mancanze lavorando per superarle. Che, nelle scellerate parole di alcuni ha anche negato l’esistenza di questa sciagura sanitaria.
Ma noi dobbiamo respirare e liberarci dalle paure, come hanno fatto tutti coloro che, professionalmente o volontariamente, hanno combattuto il coronavirus sia laddove si era manifestato e negli ospedali così come con le attività di coloro che hanno portato il cibo a casa di chi non poteva uscire, di chi ha fatto donazioni, grandi o piccole che fossero, a chi ha fatto compagnia alle persone sole, a chi ha saputo dare risposte nel mare magnum dei decreti e delle informazioni talvolta non veritiere. In tanti hanno continuato a respirare e a dare la possibilità, agli altri, di respirare. Spesso rischiano, talvolta pagando un altro prezzo, anche l’estremo, pur di dimostrare che respirare si poteva, che respirare si doveva...       
“I can’t breathe…”. Questo lo slogan che sta dilagando in queste ore in tutta l’America. Contro l’eterno virus del razzismo ma, anche, come grido di liberazione contro una gestione fallimentare del coronavirus che ha fatto più morti in tre mesi della guerra di Corea e di quella del Vietnam. Certamente in mezzo ai dimostranti ci sono malintenzionati che ne approfittano per regolare conti con nemici e con la Polizia, ci sono soggetti che approfittano della situazione per creare condizioni di disordine che possono essere “positive” per i propri “interessi” ma, alla radice di tutto c’è il malessere di un Paese che è alle prese con le proprie contraddizioni e non riesce a superarle. Un Paese nato sul “furto” delle terre ai nativi, un Paese cresciuto con lo sterminio di chi abitava quei territori. Un Paese violento e con l’ossessione del denaro e del successo dove pochi sono straricchi, pochi sono ricchi, molti sono sempre in bilico e moltissimi sono poveri e sempre a rischio, tra le carenze del sistema sanitario, l’uso smodato di farmaci, di stupefacenti con particolare attenzione alle morti a causa dell’uso del  Fentanil, un antidolorifico che falcia decine e decine di migliaia di persone ogni anno. L’America non può respirare e il suo Presidente ne ha fatto emergere gli aspetti peggiori con, anche, il suo ondivago porsi obbiettivi validi ora e smentiti subito dopo. Un Presidente che ha sostituibile tutti i suoi collaboratori mettendo in pericolo la stessa sicurezza nazionale. Un Presidente che ha deciso di stringere al collo il suo Paese in maniera figurata che, ora, sta divenendo anche reale. Non sappiamo dove condurrà questa situazione esplosa a causa dell’ennesimo omicidio senza ragione ma solo per “dimostrare” un potere verso chi è ritenuto “inferiore”. Un potere che abusa della sua forza ed anziché essere responsabile genera sopruso, morte, ingiustizia, rancore, vendetta ed altro dolore.
“Non posso respirare” dice l’America ma anche chi entra nello stadio acuto del coronavirus dove il respiro inizia a mancare, dove si percepisce la mancanza d’aria, di ossigeno, di forza vitale. Dove tutto si offusca e inizia a diventare sfumato, lontano, colmo di una paura che racconta e raccoglie disperazione. Dove lo sguardo è l’unica fonte di comunicazione prima di perdere conoscenza oppure prima di essere sedati per poter fruire della terapia intensiva. Un intervento estremamente delicato che, soprattutto nella persone di età matura lascerà, qualora sopravvissute al virus, un segno per tutta la vita. La mancanza di respiro è anche quello che si percepisce in questa società incapace di “convertirsi” di fronte alla catastrofe ambientale che incombe, che è reale, che ha forse mostrato il suo volto con questa pandemia che ci ha trovato deboli, impreparati, incapaci di capire che cosa stava accadendo. Che ha faticato a trovare modalità di lavoro comune lasciando che ogni Paese andasse per la sua strada, che ha cercato colpevoli altrove anziché comprendere le proprie mancanze lavorando per superarle. Che, nelle scellerate parole di alcuni ha anche negato l’esistenza di questa sciagura sanitaria.
Ma noi dobbiamo respirare e liberarci dalle paure, come hanno fatto tutti coloro che, professionalmente o volontariamente, hanno combattuto il coronavirus sia laddove si era manifestato e negli ospedali così come con le attività di coloro che hanno portato il cibo a casa di chi non poteva uscire, di chi ha fatto donazioni, grandi o piccole che fossero, a chi ha fatto compagnia alle persone sole, a chi ha saputo dare risposte nel mare magnum dei decreti e delle informazioni talvolta non veritiere. In tanti hanno continuato a respirare e a dare la possibilità, agli altri, di respirare. Spesso rischiano, talvolta pagando un altro prezzo, anche l’estremo, pur di dimostrare che respirare si poteva, che respirare si doveva...      

Robert Pirsig doveva essere una persona molto particolare. E’ morto nell’Aprile del 2017 all’età di 88 anni. Rimane nella letteratura del ‘900 un suo libro molto particolare, il cui testo disse di aver inviato ad oltre cento case editrici (un tempo ce n’erano…) ma senza esito finchè non arrivò su quella giusta. “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” il titolo di quello strano libro il cui protagonista attraversa l’America a cavallo di una motocicletta insieme a suo figlio pre adolescente. Si parla spesso di libri “di formazione” (London, Melville, Salinger, Twain, Kerouac, Hesse furono tra gli scrittori “di formazione”…) che riescono ad incidere su una o più generazioni in quanto raccolgono istanze che galleggiano nell’indistinto mondo del tempo e dei desideri manifestando, in maniera letteraria, quella spinta interiore ed emotiva, esistenziale ed esperienziale che rende possibile il passaggio da un’età all’altra.
Questo libro rappresentò, nel 1974, uno dei passaggi (ce ne furono certamente altri) tra un tempo ed un altro. Un viaggio iniziatico alla ricerca di se stessi, un viaggio che metteva insieme il desiderio di filosofia e visione del bello rappresentato dai luoghi attraversati, montagne e praterie. Un viaggio in cui la presenza umana era ridotta al minimo indispensabile ed dove il piatto forte non erano i dialoghi, le conversazioni, i colpi di scena, gli eventi, ma il bisogno di ritrovarsi, l’andare alla radice di se stessi e delle proprie nevrosi, dei desideri e del tempo irrimediabilmente perduto in elucubrazioni oniriche. Una sorta di consapevolezza che il Sacro Graal dell’Utopia era irraggiungibile e che sarebbe stato meglio per tutti andare all’essenza delle cose che, poi, è il quotidiano così come ci appare nella sua sacrale banalità. E’ stato interpretato come una sorta di libro new age ma nulla aveva a che fare con quel tipo di letteratura o manualistica. Le chiavi di lettura possono essere molte ma quella probabilmente più verosimile, a parte le questioni personali poste nel libro dall’autore, il libro può essere considerato come una sorta di addio al mondo del sogno, al tempo di Woodstock e di tutte le sue splendide (ma anche ingannevoli) utopie.
E’, forse, lo sguardo alla Vecchia America incontrata nella figura della natura oscura e silenziosa, madre e matrigna, delle sue strade immense, infinite, interminabili, colme di silenzio. E’, forse, lo stupore verso il mezzo meccanico che si deve saper governare per poter giungere ad una qualche destinazione. E’, forse, il richiamo alle religioni orientali i cui profumi, dopo il viaggio in India dei Beatles, attraversò l’Occidente alla ricerca di se stesso. Quell’Occidente in fermento e ben individuato dagli scritti di Marcuse (in particolare “L’uomo a una dimensione”) e della cosiddetta Scuola di Francoforte. E’, forse, la metafora di una società nevrotica alla ricerca di se senso e della sua vera direzione (la figura del “doppio” parlante, Fedro, è indicativa in tal senso). E’, forse, la ricerca della perfezione nascosta nella dimensione della Qualità di cui Fedro non riesce a venire a capo.
Ma, forse, il reale senso è nell’individuazione del lavoro del protagonista: il redattore di manuali per l’informatica. L’essere all’interno della costruzione di un mondo nuovo che, all’epoca, muoveva i suoi primi passi alla ricerca di un suo spazio in un mondo fatto di pensieri e di mezzi meccanici. La ricerca dello zen, della perfezione del Nirvana, erano racchiusi nella capacità di saper fare manutenzione della propria motocicletta perché solo la buona manutenzione del mezzo che conduci, ma che ti trasporta, ti può salvare la vita nell’immensità delle praterie e delle montagne dell’America. E nei manuali delle nuove macchine, probabilmente, Pirsig intravvedeva il futuro. Un futuro fatto di discendenze: prima questo…per fare quello bisogna che…il risultato finale lo si ottiene con questi passaggi…tutto è interconnesso…nulla è lasciato al caso…. Un futuro fatto di ascendenze: dopo aver realizzato questo prototipo e provveduto a produrlo dobbiamo sviluppare la seconda fase…questo è il futuro, un giorno ci sarà un computer in ogni casa…questo è il futuro, un giorno ciascuno possiederà un computer…). E mentre le Utopie riempivano le pagine dei giornali e le piazze del mondo, mentre gli slogan rimbalzavano da Parigi alla Kent University, da Praga a Milano, mentre la musica “alternativa” era oramai diventata parte integrante del sistema commerciale (niente di male, bastava saperlo…), mentre le droghe passavano da “apertura della mente per cogliere nuove vibrazioni” a dipendenza tossica con danni alla salute e morti di overdose, mentre le guerre continuavano ad essere combattute “a bassa intensità”, in vari garage d’America non si passava il tempo solamente a suonare rock, a immaginare futuri pieni di “strade da cui fuggire lontano” ma si macinavano dati, si immaginavano nuovi semiconduttori, chip, materiali di nuova concezione.
Piccoli, piccolissimi, sempre più piccoli. E per gestire tutto questo servivano manuali sempre più dettagliati, sempre più precisi, sempre più capaci di indirizzare la mente verso la precisione centesimale necessaria a fare funzionare le nuove macchine. All’epoca rudimentali prodotti rispetto a quelle odierne ma, nella mente dei profeti della Silicon Valley (che li avresti definiti, a prima vista, come degli autentici freak o hippy) c’era già la visione di mercati sterminati e vergini da raggiungere e di miliardi di dollari da incassare. Ma forse più di tutto di milioni, di miliardi di persone da ammaliare, soggiogare, controllare, manipolare. Nelle elucubrazioni di Fedro, nel suo discorre un po' folle c’era, probabilmente, la visione del futuro e la necessità di liberarsi del nuovo giogo prima che questo prendesse forma. La presenza del figlio che lo accompagnava nel viaggio era probabilmente il segno che sarebbe stata la nuova generazione a doversi far carico di questa nuova opportunità (o di una nuova minaccia…). Era il tempo dello sfiorire delle Utopie…a breve sarebbe arrivata la crisi energetica e il terrorismo e…Pirsig sapeva che l’arte dello zen avrebbe salvato lo spirito, l’arte della manutenzione della motocicletta la vita e l’arte del saper scrivere manuali di informatica avrebbe potuto aprire la porta del futuro. Magari per attraversarla con prudenza…

Per qualcuno è fantascienza, per altri sciocchezze…per altri ancora inevitabile epilogo di una storia millenaria. La scienza afferma che nella storia del Pianeta vi sono state già cinque estinzioni per cause diverse. Una di queste portò alla scomparsa di animali giganteschi quali i dinosauri. Tutti gli eventi furono innescati da straordinarie situazioni apocalittiche provenienti dall’esterno e, anche, dall’interno. Cinque estinzioni. Quasi immediate nella loro violenza. Ora è in atto la sesta estinzione. Lenta, metodica, annunciata, prevista, profetizzata…E’ l’estinzione che l’uomo sta costruendo da almeno duecento anni con l’inizio della rivoluzione industriale. Ma i prodromi di questa estinzione li possiamo già intravvedere a partire dai primi del ‘500 quando vennero “conquistate” le Indie Occidentali con la colonizzazione delle Americhe. Questo evento portò, nel giro di circa 500 anni, alla scomparsa di circa 100 milioni di nativi amerindi. Una guerra di conquista impari che portò al genocidio e alla distruzione di popoli e culture. Il possesso e la sua brama possono essere riconosciute come l’elemento cardine di questa guerra di conquista. Ma chi “trasforma” spesso “sforma” e questo mutare dei connotati di un continente (ma non c’è solo il continente Americano ad aver sofferto di questa colonizzazione…) ed oggi a rischio non è più solo un gruppo etnico (come gli indios della foresta amazzonica) ma tutta l’umanità a causa dei cambiamenti climatici. Ieri sera a Milano si è scatenato un forte nubifragio che ricordava quelli estivi di tanti anni fa. Cinque ore di lampi, tuoni, acqua a volontà (la quantità di un terzo di mese in poco tempo) hanno creato non pochi problemi alla città, oltre che l’esondazione del Seveso e del Lambro con danni ai cittadini ed alle abitazioni (infiltrazioni e allagamenti varie in abitazioni, cantine, box). Il coronavirus, con il quale stiamo combattendo da ormai quattro mesi potrebbe essere una delle conseguenze di questo cambiamento climatico che appare inarrestabile. Purtroppo la realtà sta superando la fantasia e se non si interverrà davvero in maniera potente e pesante il nostro destino è segnato. Forse tutto è già avvenuto prima su altri pianeti come alcuni, anche non visionari, sostengono. Questo non lo so. Quello che è certo che non è più come prima e tutto si è svolto e si sta svolgendo ad una velocità eccessiva. Faremo in tempo ad evitare l’apocalisse…?
La medicina di prossimità non va limitata e indebolita ma supportata e incrementata...Quello che segue l'ho scritto al Sindaco di Milano e all'Assessore al Welfare in prosecuzione di una proposta di medicina di prossimità fatta già da molto tempo, circa otto anni fa, e quindi prima del disastro della pandemia...Spero che prima o poi ci si muova verso la Regione per raggiungere l'obbiettivo proposto e sperato...
"A Milano i medici di base sono, ormai, circa 810 con una età media di 59 anni. A partire dal 65° anno di età possono andare in pensione anticipata e a 70 in maniera irrevocabile. Per avere un orizzonte temporale fino al 2026 si prevede che altri 218 medici di base lasceranno l’attività. Per l’immediato futuro, quindi, si prevede che ogni medico di famiglia, con il trend odierno, potrebbe avere a suo carico circa 2.000 pazienti. Un numero certamente non indifferente per una corretta ed adeguata attenzione sanitaria, in particolare per quanto concerne una popolazione residente che tende ad invecchiare. E’ bene rimarcare, inoltre che nella regione Lombardia con l’ultimo bando per i posti di medico di base non sono stati assegnati 400 posti sui 640 disponibili per mancanza di partecipanti.
Questo è certamente un forte segnale di allarme che lascia vacanti da una parte posti di lavoro e dall’altra impoverisce l’offerta curativa per i pazienti che, incrementando il trend dell’invecchiamento della popolazione, portano all’aumento del tasso di malattie croniche da diagnosticarsi quanto prima. Va inoltre segnalata la disparità del valore delle borse di studio che vedono “pagare” gli specializzandi con 1.800 euro al mese mentre i giovani laureandi ai corsi di medicina generale ne percepiscono la metà. Da non sottovalutare, tra l’altro, l’alto numero di visite nei periodi critici delle epidemie influenzali nei quali l’attenzione al paziente è molto rapida dato l’alto numero di pazienti per ciascun medico.
A ciò si aggiunge il tempo necessario per stilare i referti di malattia, la compilazione delle ricette, etc. Se il ricambio occupazionale/generazionale si bloccherà, come è probabile che sia, il rischio sarà di avere aree della città scoperte dal servizio del medico di base ed altre, di conseguenza, completamente intasate per lo spostamento dei pazienti verso medici di base situati in altre aree della città. Stesso problema è in via di “strutturazione” per i pediatri…Quindi, che fare…?
Ovviamente sappiamo che il tema è di natura regionale (ed in quota parte statale) per quanto concerne programmazione e disponibilità finanziarie, ma come Comune di Milano credo che si debba intervenire per verificare lo stato dell’arte della situazione ad oggi (differenza numero medici di base e aree interessate) e per l’immediato futuro al di proporre un tamponamento ed una soluzione al problema. In attesa di interventi regionali, come già scritto varie volte e significato con una mozione depositata nel precedente ed in questo mandato, il Comune di Milano potrebbe prevedere di mettere a disposizione gratuitamente, o a cifre inferiori a quelle di mercato, l’utilizzo di alcuni dei locali di proprietà presenti ai piedi dei palazzi dei quartieri popolari (e non solo) per adibirli, previa convenzione con la Regione, ad uso sanitario come ambulatori di prima accoglienza con un medico di base e, insieme, come luogo di proseguimento terapie di varia natura (proseguimento cure, medicazioni post traumi o interventi, verifiche terapeutiche, controllo pratiche sanitarie, prelievi ematici e di urine, etc.).
Questa presenza ambulatoriale rappresenterebbe un elemento importante in quanto porterebbe alla riduzione della presenza dei pazienti nei CUP, negli ambulatori degli Ospedali di prossimità e nei Pronto Soccorso, alleggerendone il lavoro. Inoltre, si riuscirebbe a rendere più agevole lo spostamento dei pazienti che rimarrebbero in un ambito prossimo, magari raggiungibile a piedi. Si avrebbe, inoltre, un’attenzione più dedicata a meno spersonalizzata rispetto ai pazienti che vivrebbero la situazione anche come una possibilità di relazione con il personale medico e paramedico insieme alle altre persone presenti che avrebbero una sorta di continuità di frequentazione con altre persone provenienti dallo stesso quartiere se non dallo stesso caseggiato.
Conscio delle difficoltà ma fiducioso nella operosità virtuosa della nostra amministrazione, ringrazio per l’attenzione e, rimango a disposizione per ogni chiarimento,"

Siamo stati testimoni di una strage: quella ancora in corso, nonostante la presunta nuova Fase, in Italia e nel Mondo. Ma ancora di più l’abbiamo vista generarsi nelle Residenze per gli anziani, dove le persone più fragili sono ricoverate con, è bene ricordarlo, il pagamento di rette di non poca consistenza a carico delle famiglie e, laddove necessario, degli enti pubblici. Qualcosa, però, non ha funzionato. Qualcosa di grosso se così tante persone sono decedute. Si dice che erano di età “importante”, che avevano patologie pregresse…E quindi…? E i medici e gli infermieri che si sono ammalati? Perché è accaduto, chi non ha fatto il proprio dovere? Chi ha sottovalutato? Chi non è stato previdente e non ha fatto di più e meglio di quanto prescritto? Chi ha ordinato agli infermieri di non proteggersi autonomamente come affermato da molti di loro? Cosa non ha funzionato? Chi non ha fatto i controlli dovuti in strutture convenzionate e accreditate dalla Regione che fruiscono di fondi di compartecipazione al pagamento delle rette degli ospiti? Sessanta le RSA presenti nel solo territorio di Milano…Una concentrazione figlia di un evidente “affare” che da decenni ha preso piede nel nostro Paese e nella nostra regione in particolare. Un ”affare” che, certamente, dà lavoro a molti e importanti redditi a pochi ma, anche, figlio e frutto di una società che non può permettere alle famiglie di custodire i propri anziani a casa, come un tempo avveniva. Nessuna demonizzazione, certo, ma anche bisogni di chiarezza e di giustizia per sapere se qualcuno “ha sbagliato sapendo di sbagliare”, se il lucro è stato più forte della prudenza; se è stato fatto tutto quello che si doveva e poteva fare. Ma, soprattutto, chiarezza anche e soprattutto nella quotidianità della vita di queste strutture che devono essere controllate in maniera costante per garantire la “buona vita” per gli ospiti e la sicurezza per i lavoratori. E’ chiedere troppo? Ce la si può cavare presentando come elemento cardine di una presunta inevitabilità degli eventi l’età e le patologie dei deceduti? No, non si può. No, non si deve…

Ormai ci siamo…è questione di poche ore e poi tutto (o quasi) si riaprirà. Già la scorsa settimana si sono avuti molti “segnali di vita” rispetto alle precedenti settimane. Molte aziende hanno riaperto, con prudenza ma in maniera costante. Sui mezzi pubblici molti più viaggiatori. Sulle strade le auto, le moto e le biciclette hanno cominciato a ripopolare le corsie (con incremento del rumore a cui, forse, non eravamo più preparati). Sono trascorsi Marzo, Aprile e metà abbondante di Maggio in una sorta di silenzio che, però, silenzio non è stato vista la costante invadenza dei sociale, delle fake news, delle notizie shock sul numero di contagi e dei decessi. Quelli contabilizzati e quelli probabili. Si è trattato di un tempo “strano”, un tempo anomalo, un tempo malato. Un tempo colmo di dolore e di paure. Un tempo colmo di aspettative e di speranze. Le migliaia di morti, i sopravvissuti, le persone che rimarranno, chi più chi meno, danneggiati nel corpo e nello spirito. Chi anche nella sua dignità del lavoro, magari perduto, ridotto, diventato a rischio oppure trasformato in arma di ricatto anziché di riscatto. Che cosa rimarrà di questo tempo? Solo macerie? Solo dolore? Solo paura per il futuro? Solo preoccupazioni per sé e per i propri cari? C’è, in fondo, un insegnamento che potrebbe aiutarci ad essere se non migliori almeno diversi? Non ho risposte. Credo che chi possedeva un afflato di generosità lo avrà messo a disposizione in maniera gratuita (nel mio quartiere penso al lavoro fatto dalle Caritas Parrocchiali, da realtà come la Croce Verde Baggio e, poi, al tu per tu che sfugge alla conoscenza ma esiste e compie il bene). Chi invece non manifestava particolare empatia per il prossimo si sarà chiuso ancora di più a difendere i propri confini di spazio, di reddito, di solitudine tribale. Il danno è stato grave in un Paese con tanti problemi, con un debito enorme (figlio delle scelte politiche ed economiche degli anni ’80, spesso osannati come tempo di crescita felice ma poco studiati…), con un sistema produttivo in crisi, con una criminalità pronta a comprare per pochi denari attività in crisi. Il danno è stato grave perché ha mostrato la debolezza di un sistema sanitario che mira all’eccellenza ospedaliera, soprattutto in Lombardia, ma poi ha trascurato la medicina territoriale penalizzando i medici di famiglia, gli ambulatori, limitando i concorsi, creando precariato tra i laureati in medici, tra gli infermieri. Categorie che hanno pagato un altro tributo di vittime e delle quali la società e la nazione intera, si sono accorti di quanto fossero e siano necessari. Ora è il tempo di tirare le somme per cercare di capire che cosa è accaduto nelle RSA, chi ha dato indicazioni sbagliate, chi doveva provvedere ai protocolli anti pandemie, chi doveva avere a scorta dispositivi di protezione adeguati ed in utile quantità. Sarà necessario capire chi doveva provvedere alla creazione delle zone rosse, bisognerà capire come investire per avere la migliore sanità possibile. Bisognerà scegliere i direttori sanitari per concorso non italiano ma europeo perché gli ospedali veicolano miliardi (19 solo in Lombardia) e la politica deve starne lontana. Deve programmare e provvedere, verificare e controllare, ma i direttori sanitari siano realmente indipendenti nelle scelte e non figli di “assalti alla diligenza” dove, poi, con il senso familistico che ci contraddistingue, c’è sempre un amico da sistemare…o una serie di amici…Che arrivi davvero il tempo della Verità e della Giustizia perché ogni vittima, deceduta o sopravvissuta, insieme alle loro famiglie, possa essere degnamente ricordata e gratificata. Che arrivi il tempo dell’azione per far sì che quanto messo a disposizione per l’emergenza, oggi disponibile oppure in divenire, possa arrivare presto e bene a chi ne ha bisogno. Perché non è in gioco solo la sopravvivenza “alla fame”, al pagamento delle bollette, al fare fronte alle necessità ma è in gioco la dignità delle persone che devono avere giustizia, devono essere riconosciute nella loro dignità di persone, devono poter disporre del futuro. Del loro, di quello dei propri figli e dei propri anziani. Se il silenzio che abbiamo vissuto in questi mesi sarà tramutato in parola che “libera” e trasforma la politica in azione verso chi soffre in azione di emancipazione non assistenziale allora questo silenzio parlerà le parole dei giusti. In caso contrario si tramuterà nel coro tombale di un popolo. Ma sarà solo l’inizio di un coro funebre che abbraccerà in una stretta mortale tutta l’umanità. Perché il silenzio può essere l’anticipo del sorriso ma, anche, l’annuncio della fine.

Spesso ci si ritrova a vagare con la mente come se si fosse in sella a una motocicletta in una strada infinita come quelle che abbiamo visto o immaginato guardando film americani dove è possibile attraversare gli Stati Uniti da nord a sud e da est a ovest quasi in una sorta di linea dritta (ma così dritta non è…). Oppure, osservando quelle belle foto di Frank Stefanko e Eric Meola che hanno immortalato Bruce Springsteen seduto e a fianco di un auto, si può immaginarle come metafora della vita. Nella prima foto la stabilità della vita in città, con le sue regole e le sue convenzioni, mentre nella seconda foto ci si confronta con l’infinito, con un temporale in arrivo e la variabilità della natura che impone le sue regole. Due straordinarie immagini in bianco e nero capaci di fotografare non solo un artista ma un’epoca. E, in quest’epoca, la motocicletta che attraversa le strade infinite può rappresentare un'altra metafora: quella del tempo e della vita che l’attraversa. Il viaggio è lungo, ma all’interno di questo percorso, sconosciuto, ci si misura con se stessi e con la capacità di interagire con la Storia, con le persone, con la realtà che ci incontra e dalla quale, spesso, siamo spiazzati e spezzati. Un viaggio in motocicletta su strade infinite ti dà la possibilità di guardarti attorno e di vedere la vita, o la sua assenza, introno a te. Città, paesi, oppure il vuoto, sono l’immagine che si percepisce. Agglomerati urbani con le case che si affacciano sulle strade brulicanti di vita oppure paesini, quasi tutti uguali, con i motel, i distributori di benzina, i piccoli stores che fanno capolino, invitanti, per richiamare l’attenzione verso il meritato riposo. E poi gli spazi aperti, quelli dove si vedono solo alberi e poi arbusti, e poi erba e poi baracche e poi nulla più. Il silenzio e la sua disperazione. Il silenzio e la sua liberazione. Il bianco e nero delle immagini che attraversiamo (o ci attraversano),  costruiti alla maniera di “Furore” oppure dei film di John Ford sono la rappresentazione del bisogno di silenzio che anche in certi momenti della vita è importante, doveroso, necessario ricercare ed ottenere. Un bianco e nero che è come una sorta di marchio di garanzia rispetto ai luoghi ed ai tempi dai quali proveniamo e dai quali siamo richiamati, quasi che l’età, ciò che si è vissuto, ciò che si è annusato, ciò che si è amato, ciò da cui ci si è abbeverati e poi emancipati, fosse sempre alla finestra per catturare un nostro sorriso o saluto nel momento i cui ci ritroveremo a passare davanti al nostro passato, quello che ha costruito il presente ed immaginato il futuro. Quelle due auto ferme, rappresentate da Stefanko e Di Meola, possono essere viste, anche, come la rappresentazione di un prima (l’arrivo), un durante (la sosta), il dopo (la ripartenza). Immagini apparentemente ferme ed invece straordinariamente mobili. Come l’accelerare di una motocicletta sul rettilineo una highway infinita degli States alla ricerca di altre storie….     

Fu il primo album che comperai e l’acquisto fu casuale. Ascoltavo alla radio, quando le passavano, le canzoni dei Beatles e mi piacevano. Melodiose e vibranti, decise e sognanti, affascinanti e misteriose. Non avevo 45 giri e così, alla metà di Giugno chiesi ai miei genitori “un regalo” per la promozione: dalle elementari si passava alle scuole medie. Era un passo importante che bisogna festeggiare in maniera importante. Avevo letto che era uscito da pochi giorni un nuovo album dei Beatles, con un titolo lunghissimo, “Sergent Pepper’s lonely hearst club band”, ed impronunciabile, e mi ero prefissato di acquistarlo. Il giradischi in casa c’era (era quello di mio padre che aveva anche il mitico registratore “Gelosino”…) e quindi si poteva ascoltarlo senza problemi. Il disco (il long playing…) lo avevo visto nel negozio di dischi del quartiere (già, nel 1967 era normale che ci fossero negozi di dischi e strumenti musicali disseminati nei quartieri della città…). Chiesi di poter scegliere il “premio” per la promozione e fui accontentato. Con il mio “gruzzoletto” in tasca andai verso la meta agognata e vidi che il 33 giri era lì, in vetrina, in tutta la sua bellezza artistica. Ora basta un click sulla tastiera ma a quel tempo per individuare alcuni dei personaggi raffigurati in copertina ci volle un lavoro di mesi e mesi. I tempi arano quelli della ricerca, quelli dello scavo archeologico, dell’intuizione. Oggi è un attimo sapere, accumulare informazioni, accatastare nozioni per poi dimenticarle e passare ad altro. Lo acquistati quel benedetto microsolco (così c’è scritto sull’etichetta del vinile, con impressa la data di stampa, 30.5.1967…) e me lo portai orgogliosamente a casa pregustandone l’ascolto e quando, dopo il brusio iniziale, le prime note iniziarono a fluire nel modesto diffusore del giradischi compresi che avrei dovuto porre la massima attenzione all’ascolto di quanto mi si presentava. Fuori la luce della mattina di Giugno era accecante e il cortile era già pieno di coetanei che facevano la solita “baraonda” per decidere cosa fare: “stiamo in cortile o andiamo in oratorio…?”…queste erano le due scuole di pensiero. Chi voleva stare in cortile pensava allo stuolo di ragazzine che, magari, sarebbe sceso a breve a giocare. Chi voleva andare in oratorio pensava solo al pallone, ad una bella partita di calcio e al divertimento assicurato…Ma io avevo scelto “la terza via” e rimasi stregato da quelle note e da quelle parole di cui leggevo il testo nel retro copertina dell’album ma di cui, ovviamente, non capivo una parola anche se quelle liriche erano perfettamente in armonia con la musica. Fu davvero un ascolto “terapeutico”, uno di quei momenti che ti aprono mondi imprevisti ed inimmaginabili, dove tutto ciò che avevi ascoltato prima diventava piccolo o vetusto, si disintegrava nel nulla aprendo la strada nuove dimensioni. Non ne capivo nulla di musica (avevo dieci anni…suvvia…) ma in casa ne ascoltavo molta perché mio padre aveva dischi di musica lirica, ascoltava a registrava sul Gelosino i vari Festival di Sanremo, aveva l’abitudine di ascoltare la radio in maniera intensiva e, pertanto, lentamente la passione si travisò in me. Ovviamente con differenti gusti musicali come era giusto che fosse ma senza giudizi anche se qualche volta un “ma cosa ci trovi in quella musica lì…?” arrivava a sottolineare la sua difficoltà nel comprendere che i tempi stavano cambiando…E quel disco fu davvero la rottura di tutto quello che era avvenuto prima nel campo dell’arte e della comunicazione. Quell’album, lo dissero eminenti pensatori e grandi giornalisti, fu una sorta di unione del mondo occidentale perché a partire dal 1° Giugno, data della sua uscita ufficiale, venne diffuso un po’ dovunque. Dalla grande metropoli londinese ai bar e Motel disseminati nelle sterminate highways americane. Era come se fosse squillata la campanella del cambiamento e questo suono “di richiamo” al pensiero alternativo suonava un po’ dovunque perché “in un dovunque qualsiasi” si sentiva il bisogno di cambiamento (solo quattro mesi dopo, con l’assassinio di Che Guevara  si incontrerà il mito e di lì a pochi mesi scoppierà la palla infuocata del ’68…) e la musica, quella musica, fu uno dei veicoli del cambiamento a cui tutti gli artisti di valore furono costretti ad assoggettarsi. Bisognava allargare l’orizzonte, aprire la cosciente, inventare “nuove norme e nuove forme” di conoscenza e di trasformazione della realtà. Non si poteva pensare ad un equivoco: i Beatles stavano utilizzando un'altra calligrafia ed un'altra grammatica per esprimere, in musica, il bisogno di cambiamento. Ne fossero o meno consapevoli nella loro genialità…”Sgt. Pepper’s lonely hearst club band” introduceva ad un nuovo modo di proporre la musica dal palco (fittizio) dopo la delusione dei tour veri; “A little help from my friend” era un brano gospel fittiziamente travestito da canzonetta; “Lucky in the sky with diamonds” faceva volare l’immaginazione nei mondi di Lewis Carroll; “Getting better” con il suo ritmo allegro era una finestra aperta sull’ottimismo; “A fixing a hole” è una sorta di sogno ad occhi aperti mentre “She’s leaving at home” rappresenta una dolcissima visione sulle difficoltà generazionali degli adolescenti del tempo; “Being the benefit of Mr. Kite” è un capolavoro di suoni mentre le liriche sono tratte, in toto, da un cartellone pubblicitario di un vecchio circo; “Within you, without you” rappresenta l’irruzione della musica indiana e delle sue filosofie, in occidente; “When I’m sixty-four” è il passato del vaudeville che manifesta l’antico nel nuovo; “Lovely Rita” e “Good morning, good morning” sono due esperimenti sonori che sarebbero emersi nel tempo; “Sgt. Pepper’s lonely hearst club band, reprise” chiudeva l’album per quanto riguardava l’esibizione della band dei cuori solitari. Un brano che Jimi Hendrix, sapemmo in seguito, aveva presentato dal vivo, di lì a qualche giorno, al Saville Theatre di Brian Epstein, alla presenza di un sorpreso Paul Mc Cartney. Ma quando tutto sembrava finito arrivò “A day in the life” ad aprire nuove porte per una diversa percezione della musica. Sono stati scritti libri su libri su questo album e su questa canzone ed è inutile aggiungere parole. Rimane lo stupore e la meraviglia nel pensare alla lucidità e genio artistico di questi “ragazzi” giovani ed intraprendenti (George Harrison aveva solo 24 anni all’epoca ed era già, come gli altri, nella leggenda…) che avevano pensato e proposto un album immortale (da non dimenticare che, dietro suggerimento del loro produttore, il mitico George Martin, avevano pubblicato su 45 giri “Penny Lane” e “Strawberry fields forever” che se inserite nell’album avrebbero “stritolato” qualunque lavoro successivo…) e pieno di idee innovative che avevano già fatto capolino in “Rubber soul” e “Revolver”, a riprova delle loro crescita inarrestabile…Passai il resto della mattina e tutto il pomeriggio ad ascoltare quel disco tanto che mia mamma ad un certo punto mi chiese se intendevo conservarlo oppure consumarlo in un giorno solo…Ricordo che non uscì di casa quel giorno nonostante i richiami dal cortile “Perché non scendi oggi…? Non stai bene…?” chiamavano voci amiche. No, io stavo benissimo, ma ero rimasto impigliato nelle reti della meraviglie e non riuscivo a liberarmene. Quando, alla fine, riposi il disco nella sua custodia cercai il posto migliore dove poterlo appoggiare. Doveva essere un posto visibile sempre. Non fu difficile trovarlo, viste le dimensioni dell’appartamento dove vivevamo, 50 metri quadrati, più o meno, ma da quel momento la casa si era arricchita. Mio padre e mia madre certamente non lo sapevano né lo avrebbero mai confermato, ma per me era proprio così. Si era accesa una stella ed io, insieme a milioni di altri in giro per il mondo, avevo visto la luce…

Aspettando il Bardo…Come insegnano i principi del Buddismo Tibetano, la morte non è vista come un elemento negativo o terribile. La concezione delle genti che vissero nel mondo limitato ed isolato del Tibet e dei suoi monasteri è che la vita si riperpetua nel tempo, vita dopo vita, generazione dopo generazione. E’ uno sguardo profondamente antico che fissa le regole della reincarnazione che segue la ruota del Karma. Una ruota che attraverso la vita e più vite per arrivare a raggiungere il Nirvana che rappresenta quello stato di assoluto dissolvimento del Sé nel tutto. Il Bardo è, per la religione buddista tibetano, il momento di sospensione, che dura 49 giorni, che rappresenta il momento in cui è possibile “intervenire” per intercedere per la vita del defunto in viaggio…Lo stato del Bardo del divenire è quello stato di vita, reale ma invisibile, in cui l’anima può essere aiutata a intraprendere la strada migliore per il suo sviluppo ed il futuro. Lo stato del Bardo viene supportato dalle indicazioni presenti nel “Libro tibetano dei morti” che rappresentano una sorta di via per raggiungere il migliore stato possibile. Il Libro tibetano dei morti non va letto ma deve essere uno strumento di conversazione con chi sta spirando oppure è già spirato (interessante il docu film di Franco Battiato, “Attraversando il Bardo” che, grazie ad alcuni interventi esplicativi, racconta il significato di questo libro che va alla ricerca del Buddha luminoso. Il Bardo significa “stato intermedio” ed è il momento del passaggio dalla vita alla morte. Il Bardo è qualcosa che accade sempre perché anche la vita è piena di “stati intermedi”. La vita e la morte sono visti, vissuti e sofferti in differenti maniere in funzione dell’area in cui si nasce si vive. Ma lo sguardo sulla vita e sulla morte sono l’aspetto (forse) più importante che si possa immaginare però, purtroppo, tutti siamo pronti a scegliere qualcosa di molto banale immaginando, invece, che siano altre le cose importanti della vita e ci lasciamo trascinare in mondi che ci attraggono ma poi, purtroppo, sono tutte chimere rendendo sempre più limitata e precaria la consapevolezza collettiva costruendo, così, modalità di costruzione della vita colma di tristezza e rancori, di invidia e recriminazioni, di dolore e violenza, di denaro e passioni. E’ questo che può dare senso alla vita? E’ per una ricchezza finita e corruttibile che qualcuno ritiene che si possa “barare” con se stessi assolvendosi rispetto ai propri “peccati”, mancanze, prevaricazioni…? E’ per avere visibilità, onori, potenza, successo, benessere e quant’altro possibile che si pensa di poter schiacciare, impoverire, umiliare, spaventare, reprimere, derubare, uccidere il prossimo…? Ma se, come ben spiegano gli esegeti del Vecchio e del Nuovo Testamento, il prossimo è l’Assoluto stesso perché, come recitano le scritture “Io sono Colui che sono”, quella dizione che richiama “l’essere” come eterno divenire raccoglie un mondo più ampio che integra tutto e tutti, che diviene “prossimo”, come incontro con tutte le genti, in senso lato, e con chi ci vive a fianco in senso reale e concreto. La vita non l’abbiamo cercata ma ricevuta come un dono (per qualcuno immeritato visto come poi ha utilizzato o utilizza i suoi giorni) e la morte è, nel migliore dei casi, un tempo dovuto a causa del suo naturale svolgersi. E il poter vivere molto deve dare a chi ha questa fortuna una grande consapevolezza nel rendere grazie a questa possibilità e, insieme, a chiedersi se ha davvero fatto quello che poteva per rendere il “suo transito terrestre” una manifestazione positiva che tanti potranno ricordare con un sorriso e un buon ricordo. Quando tutto sarà finito non saremo giudicati per quello che abbiamo pensato essere il nostro metro di giudizio e tornaconto, bensì con il bene compiuto. Per il buddismo la ricerca del Nirvana, l’illuminazione che stacca il karma dalla ruota delle incarnazioni e lascia che lo Spirito ritorni all’Uno assoluto, che tutto crea, che tutto conosce, che tutto abbraccia. Come dicono la Bibbia e il Vangelo, i nostri gironi sono contati e noi non siamo in grado di conoscere quando il nostro tempo finirà ma siamo in grado di sapere che il nostro comportamento sarà giudicato. Quale Colui che lo farà è un’assunzione di fede personale. Ma, laicamente, possiamo ricordare che “nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma” (Legge fondamentale della massa – dal postulato fondamentale di Lavoisier).

Ieri il Consiglio Comunale di Milano ha approvato una mia mozione che impegna il Sindaco e la Giunta ad intervenire su alcuni temi ambientali (è una delle tante mozioni che ho presentato sul tema). In particolare ho chiesto l’impegno a prendere in considerazione il conetto di Capitale Naturale, degli impegni inseriti nell’Agenda ONU 2030, dell’importanza di limitare la produzione di CO2 del 50 % entro il 2040, della necessità di costituire un tavolo di lavoro che operi per lo sviluppo di buone pratiche per l’alimentazione a kilometro zero e così via al fine di evitare di giungere a quel + 1,5° gradi centigradi che potrebbe essere l’elemento cardine per la messa in opera della distruzione dell’ambiente. Purtroppo l’opposizione, con una visione molto limitata, ha indicato la mozione come importante ma bollandola di limitatezza verso i problemi che stiamo vivendo. Purtroppo il limite è proprio questo: non accorgersi, non rendersi conto che siamo ai titoli di coda per quanto concerne l’ambiente e che, ad esempio, il Covid nasce proprio da quella perduta demarcazione tra le aree urbanizzate e quelle disboscate e stravolte in maniera tale da destabilizzare le differenze ataviche tra quello che è “umano” e quello che non lo è e che tale deve restare. Ma non c’è niente da fare….anche questo segnale di pericolo non vengono prese in considerazione. Ed è proprio di oggi la notizia che a causa dello sfondamento del permafrost un grande serbatoio di gasolio a servizio di una centrale elettrica ha sversato in un lago milioni di metri cubi di gasolio che andranno a peggiorare la situazione ambientale dell’area interessata. La natura ha cancellato, a causa dell’uomo, il 75% di insetti impollinatori. Un elemento di pericolo per tutta l’umanità. Ma ben pochi se ne rendono conto realmente. Le piogge tropicali di questi giorni che hanno colpito il nostro Paese dovrebbero fare riflettere ma così non sarà…Siamo in vista della sesta estinzione ma per alcuni è più importante l’aperitivo o la ripresa del campionato di calcio…E’ tragico, ma è la verità e così l’Apocalisse ci colpirà alle spalle mentre saremo impegnati a organizzare il prossimo week end….
Pensando alla storia di tutti i giorni, quella che viviamo, superiamo, sopportiamo ed amiamo, mi torna alla memoria una vecchia canzone, ormai con 50 anni di vita, di un gruppo inglese, Fairport Convention, dal titolo “Where the time goes”. Il titolo è senza il punto interrogativo ed appare come un’affermazione e viene spontaneo cercare di capire come il tempo si sposta e dove si dirige. Immediatamente viene da pensare che il tempo si sposta per dirigersi nel futuro, per superare quello che stiamo vivendo, per affacciarsi a spazi di eternità. Ma, forse, non è proprio così. Forse il tempo si dirige non verso il futuro ma verso uno spazio che in cui parte attiva e viva è la memoria. Quella memoria che deve consolidarsi, deve mantenere alta la sua capacità di conservazione degli eventi, deve poter essere la reale guida della storia di ciascuno perché il tempo spinge lontano se stesso (e noi stessi) e solo la memoria è in grado di contenere tutta questa dimensione fatta di mistero. Perché il Tempo, come l’Essere (per ricordare un libro epocale del filosofo Heidegger, “Essere e Tempo”) rappresentano un mistero insondabile ed inarrivabile. E noi siamo immersi in questo mistero. Per questo ogni attenzione alla cura per l’ambiente non è mai fine a se stesso ma riempie la Storia, la rivolta, la ricostruisce, la rinnova affinchè il nostro essere possa continua re a vivere, a rigenerarsi, a dare spazi di futuro al Tempo che ci cammina accanto, che scorre veloce, che non ci dà la possibilità di percepirlo perchè spiritualmente immateriale ma, paradossalmente, intriso di “sangue, sudore e lacrime” perché è parte attiva della Storia con la S maiuscola. Questo Tempo e questo Essere esistono perché la vita è presente su questo Pianeta ma, insieme, la vita del Pianeta è essenziale all’esistenza del tempo e dell’Essere. Tutto si tiene, tutto è parte di un disegno più ampio, immenso, insondabile ed infinito. Cercare il Tempo, la sua origine e la sua destinazione finale è un grande esercizio di pensiero ma che non potrebbe andare molto lontano se non vi fosse l’Essere a dargli senso ed il Pianeta a rendere viva ogni “speculazione” del pensiero, nel Tempo, per il Tempo, oltre il Tempo…        

Nei giorni scorsi ho letto e visto documentari che parlano di Bruce Springsteen negli anni di “Darkness on the edge of town”. Era il periodo in cui l’artista del New Jersey stava lavorando al suo nuovo album, che sarebbe stato una sorta di treno per lanciare Springsteen nell’olimpo del rock dopo il tuono di “Born to run”. L’artista era stato coinvolto e bloccato per tre anni dal suo precedente manager, Mike Appel, in una causa legale di natura contrattuale. Un periodo che, pur bloccando la fase di registrazione, avrebbe costruito la leggenda del Boss come inarrivabile performer. Da quell’album in poi (che si avvale di due fotografie di Frank Stefanko che fece “apparire” lo spirito, l’interiorità di Bruce, così com’era nella realtà. Non solo il rocker “folle” che dominava il palco bensì anche un giovane alla ricerca di se stesso, delle proprie radice, della propria autentica strada da perseguire. Riguardando le immagini del “Making off” di quell’album ci si rende conto che è trascorsa una vita. Più di 40 anni, dove è accaduto di tutto. Nascite, decessi, trasformazioni, amicizie perse, amicizie trovate, delusioni, emozioni, speranze, dolori, aspettative…Il tempo ha cambiato tante prospettive, com’è giusto che sia, ha modificato tante situazioni (anche se il razzismo ha continuato, purtroppo, a prosperare inquinando l’animo degli uomini) alcune in meglio ed altre in peggio. Telefonare all’esterno era possibile solo attraverso cabine telefoniche e gettoni. Le schede sarebbero arrivate più tardi. La cintura di sicurezza sulle auto non era ancora prevista. Era possibile avere il telefono in auto ma solo a personalità particolari ed autorizzate all’uso. Era un mondo difficile e “statico”, dove il terrorismo dominava le pagine dei giornali e provocava lutti. Inutili come tutte le morti dovute ad ideologie. La rivoluzione khomeinista era alle porte ma nessuno ne aveva sentore in occidente. Una rivoluzione che avrebbe cambiato l’approccio con il mondo islamico. Anzi, che avrebbe portato all’attenzione del mondo la questione islamica. Saddam Hussein era un dittatore vezzeggiato dall’occidente e poi…Ma mentre il mondo cercava un suo assetto geopolitico, quel ragazzo di ventisette anni ossessionava la sua band con la metodica ricerca del suono perfetto e delle liriche inamovibili. Ore ed ore per trovare il giusto suono delle bacchette sul rullante della batteria. Ore ed ore di ascolto e riascolto, di modiche a canzoni già pronte e poi, magari, dimenticate. Ore ed ore per rendere la vita impossibile a musicisti, produttore, fonico e a tutti coloro impegnati nell’impresa. Alla fine l’impresa portò alla pubblicazione di un album epocale e ad un tour altrettanto stellare e leggendario. La replica avverrà nel 1980 con l’album “The river” ed il corrispondente tour. Ora tutto è passato e quello che rimane è ben fissato nella memoria di chi, ancora, ammira Springsteen per la sua arte e le sue stranezze (lasciare fuori dall’album un capolavoro come “The promise” fu un delitto…). Guardiamo quelle immagini in bianco e nero e ci accorgiamo che è trascorso un tempo moltiplicato per almeno cinque volte…Oggi il telefono cellulare, le App, gli algoritmi hanno trasformato il mondo (in meglio se questi strumenti sono usati bene e a fin di bene. In male se…). Siamo tutti diversi e spesso “un sogno è una bugia se non diventa realtà”, come cantava in “The promise”. A Springsteen il sogno si è trasformato in realtà e dalla sua c’è sempre stata la convinzione, la certezza, la sicurezza che ciò sarebbe accaduto. Nonostante le avversità lui “sapeva” che sarebbe diventato “Grande”. Non ricco, non famoso ma “Grande”, come Elvis. Lui, il ragazzino stregato, come milioni di adolescenti, dalla figura iconica e dalla voce di Elvis, lui il ragazzino magrolino e outsider, davanti al negozio di strumenti musicali in adorazione di una chitarra che sua mamma, l’inossidabile Adele, gli comprò facendo fare qualche sforzo al bilancio famigliare. Lui, che rimase solo, all’età di vent’anni mentre la sua famiglia si trasferiva in California. Lui che non aveva particolari chances da spendere se non l’ossessione per la musica e la certezza che sarebbe diventato “Grande”. Lui, che riuscì ad incantare John Hammond e a costruire la perfetta macchina da note chiamata E-Street Band, lui emarginato e destinato ad una vita grama divenne “Grande”. Rivedendo quelle immagini in bianco e nero, ascoltando quella mole di canzoni lasciate da parte nel corso della sua carriera emerge anche l’immagine di un grande lavoratore della musica. Un musicista, certamente ma, soprattutto, un lavoratore infaticabile. Sia sul palco, sotto gli occhi di tutti che in sala di incisione dove il suo leggendario quadernone pieno di liriche e note ha rappresentato una sorta di guida artistica e morale a proseguire nel lavoro anche quando tutto e tutti faceva propendere per uno stop al lavoro, ad una accettazione di quanto concluso, a chiudere perché le spese erano andate oltre il budget…ecco, anche in quei momenti lui proseguiva nel lavoro fino a quando non aveva raggiunto quello che sentiva nella testa, nel cuore, nello spirito. E la sua band non l’ha mai abbandonato. Magari scommetteva sulle sue nuove “follie” ma, alla fine, ne assecondava i desideri. E alla fine aveva sempre ragione lui. Fiducia in se stesso, capacità artistica, abilità strumentale, visione, concezione operaistica della vita e del lavoro, voglia di riscatto, innamoramento del pop anni ’60 e delle sue canzoni gioiello dal tempo massimo di tre minuti dove all’interno c’era il mondo intero…Tutto ha contribuito a fare di lui una leggenda. I suoi live show che mai hanno deluso anche nei concerti magari meno entusiasmanti (tutti possono avere mal di testa, l’influenza, mal di stomaco ed essere costretti ad andare sul palco perché lì sotto c’è gente che ti aspetta da mesi…). La sua capacità d’essere empatico e di raggiungere i suoi spettatori/fans uno per uno quasi che ti sembra che lui stia suonando solo per te. Il tempo è volato e quel ragazzo che alcune foto ci mostrano con pantaloni larghi ed improponibili, la barba ed i capelli incolti, un cappello di lana calcato in testa, piedi nudi e via dicendo è, da tempo, un bravo padre di famiglia che veste con cura ben “accudito” e supportato dalla moglie musicista. Il bianco e nero di quelle immagini si è trasformato in colore. Poi tornerà bianco e nero. E rimarranno solo i ricordi.      


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