Spesso il problema non il fare ma il carisma di chi si impegna a fare. Quando ero un
ragazzino, e poi un po' più grandicello, mi colpivano certamente i pensieri, le
parole, le idee che circolavano in quegli anni (’60 e ’70) ma tutto diventava
vero e vivo in funzione della credibilità, del carisma, di chi le pronunciava,
di chi se ne faceva interprete. Queste persone riuscivano ad aprirmi “le porte
della percezione” senza che lo chiedessi. Erano naturalmente credibili e riuscivano
ad accendere fuochi di bellezza e di desiderio che, nel tempo, ho incontrato
con fatica. Nei giorni oscuri che stiamo vivendo avremmo fortemente bisogno di
persone così potenti e, invece, da una parte latitano e, dall’altra, e penso a
Padre Bartolomeo Sorge, si spengono per l’età. Parlare di ideali, oggi, è
praticamente impossibile e davanti a noi la prateria del pensiero è totalmente
inaridita e per trovare momenti di “passione” bisogna correre con lo sguardo al
passato e riprendere in mano storie quasi dimenticate oppure osservare quello
che sta facendo Papa Francesco: riformare la chiesa con una testimonianza raso
terra che tanto fa “impazzire” i Giuda sempre presenti nella Storia.
Non dovremmo avere bisogno di eroi o meglio, li abbiamo, ma sono molto bravi
a celarsi allo sguardo. Sono sulle ambulanze, sono nei reparti ospedalieri,
sono quelli che portano la spesa a casa di chi non può uscire, sono quelli che
pagano la spesa a chi non può farla come si deve. Sono quelli che assistono i
senza fissa dimora, sono quelli che servono (e non si servono) degli ultimi,
sono quelli che si avvicinano alla tavola degli ultimi per riempirla di
pietanze. Sono quelli che non li vedrai mai in prima fila. Ne ho in mente
tanti, ma tanti, ma proprio tanti. Invisibili agli occhi, nascosti dalla
ribalta, sempre indaffarati quando ci sarebbe di ricevere un applauso che
rifuggono con gioia…Sempre con il sorriso anche quando ci sarebbe da piangere.
Sono coloro che salvano il mondo anche quando pensiamo che non facciano nulla di
particolare. Vanno, magari, a servire “a casa loro”, a rischiare la vita sotto
le bombe, cercando di osservare, magari a loro insaputa, le parole del Talmud
quando afferma che “chi salva una vita salva il mondo”.
Questa sera mi è arrivato questo pensiero guardando una vecchia fotografia
su facebook. Probabilmente del 1966. Una fotografia in bianco e nero, del tempo
in cui i Beatles non avevano ancora pubblicato “Sergent Pepper’s…”, dell’anno
in cui il Che pensò che fare il Ministro non fosse il suo mestiere, l’anno
dell’alluvione di Firenze…l’anno iniziava ad anticipare il ’68…Questa foto
semplice, umile, dimessa mostra alcuni giovani, nel pieno della vita, presi a
giocare in una località montana (Barzio, San Giovanni Bianco…chissà…?) e di
spalle/profilo si vede la figura di un giovanotto, all’epoca neppure trentenne,
con camicia di flanella da boscaiolo (qualche anno dopo si sarebbe detta in
stile grunge…) che si capisce essere un punto di riferimento. La figura è
quella di un prete, un semplice prete, rimasto tale per la vita. Niente
Monsignore, niente vescovo, niente arcivescovo…Ma era colmo del carisma che
serviva per renderlo credibile a quei giovani, a quelle ragazze, con gli occhi
puntati verso il futuro. Era la sua ricchezza quel carisma e non costava nulla
perché o lo percepisci oppure non sai di cosa si stia parlando (per capirci: è
quello che si scatena quando Bruce entra sul palco...). Certamente erano altri
tempi perché di fronte c’era l’infinito del futuro, c’erano ancora i segni
della guerra vissuta sulla pelle dei nostri genitori, c’era la consapevolezza
che la scuola poteva fare svoltare la vita di una generazione, e poi un'altra e
ancora. Tutto era in bianco e nero, è vero, ma a colori avevamo la fantasia che
era davvero qualcosa di inarrivabile. Sapevamo che stando insieme avremmo
conquistato il mondo. Ma arrivarono presto le “divisioni” che lavorarono per
spegnere i sogni però l’avere intravisto l’infinito fu qualcosa di
indimenticabile e la lezione fu ben recepita. Non cambiammo il mondo ma imparammo
a come comportarci per mantenere dentro di noi la fiammella dell’infinito.
Spesso le circostanze, i dolori, i dispiaceri, le delusioni, le sconfitte,
tentano di spegnerla quella fiammella. Ma noi, integerrimi idealisti,
incurabili utopisti, sappiamo che fino a quando la terremo accesa e ne potremo
intravvedere il chiarore, ci sentiremo fedeli a quelle ombre, a quelle
immagini, a quei sogni, in nettissimo bianco e nero, che non ci hanno fatto
tradire. Né altri, né noi stessi. Destinati, forse, alla sconfitta ma mai
costretti al “tradimento”. Si può trovarlo l’infinito, basta cercarlo e, alla
fine, non restarne schiavi…
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