domenica 15 novembre 2020

Gioventù...

 ciao Ezio...

Avevamo consuetudine con la nebbia, noi che vivevamo, come cantava Guccini, “tra la via Emilia e il West”. Il cortile era il nostro antro riparato, con i portici che ci permettevano di giocare quando pioveva oppure di ripararci dal sole quando il caldo era insopportabile. Poi c’era l’oratorio, con i suoi campi di calcio e le partite infinite. Ed, infine, il west, il territorio da esplorare, le cascine da visitare, i campi da guardare con ammirazione e stupore, gli alberi da scalare, i fontanili e le rogge dove, un tempo, si potevano pescare pesciolini e gamberetti di acqua dolce. Un mondo di ordinaria bellezza che per noi ragazzini rappresentava l’avventura, la fiaba, un mondo fatato da vivere ed inventare quotidianamente, qualunque fosse la stagione.
In questa stagione autunnale era straordinario camminare sul prato dei campi, con l’erba che calpestavi come fosse un tappeto, con la terra, intrisa di umido e rugiada, che ti sporcava di fango le scarpe, facendo spesso scivolare gli intrepidi ragazzini. Con i colori delle foglie che ti stordivano di bellezza. E altra bellezza appariva quando arrivava il tempo della neve, quando torme di ragazzini, spuntati da una immaginaria Via Pal, si sfidavano a palle di neve, costruivano pupazzi improbabili, si congelavano le mani in maniera incosciente. Cappellini di lana di tutte le fogge incorniciavano le teste, giacche a vento dalla risibile resistenza, blue jeans che diventavano rigidi per il freddo, scarponi per modo di dire (qualcuno li chiamava “polacchine”) che non servivano a tenere a bada il freddo. Maglioni generalmente fatti a mano da mamme o nonne capaci di lavorare con i ferri da maglia.
Eravamo i figli del dopoguerra avanzato che sperava nel benessere ma, ancora, era ancorato, all’essenziale. Faceva freddo d’inverno, ma non ci faceva paura. C’era la nebbia, d’inverno, ma la si accoglieva con benevolenza. Giocare a pallone diventava più interessante, le case si scolorivano diventando sagome, l’odore della nebbia lo sentivamo e lo apprezzavamo. Il fiato raccontava del freddo intorno a noi. Il tardo pomeriggio d’inverno ogni cosa, ogni lampione, ogni persona, ogni auto, ogni pensiero verrebbe da dire, prendeva una forma inusuale e le parole si ascoltavano spesso neppure individuando chi le pronunciava. Era un mondo a parte in quel mondo già a parte che è l’infanzia e poi lo sono pre e adolescenza. Un mondo dove il pensiero magico è reale non un concetto e dove i misteri della vita si intersecano con la realtà. La ricerca della dimensione del nascondimento che si rende concreta immergendosi nella nebbia, il desiderio di vedere e non essere osservati, il desiderio di volare sopra tutto e tutti certi dell’invisibilità.
Nel pomeriggio attraversare il confine con il west era una sfida che si poteva fare solo con gli amici più fidati per osservare quello che era nascosto ai più. O, almeno, così ci sembrava, immergendosi in una sorta di massa informe che si apriva al nostro passaggio, silenzioso, attento, pronto a sfiorare o a essere sfiorati da immaginarie figure di cui sentivano, nella nostra fantasia, la presenza. Non ci si poteva incamminare in quel west pieno di mistero se fosse mancato il coraggio e la fiducia nei compagni di viaggio. Che erano pochi e selezionati ma sicuri. E ci si inoltrava pensando, anche, che si camminava sul sentiero dei giorni dedicati ai defunti e ciascuno, in maniera forse innaturale, pensava a coloro che non erano più.
Proprio in quei giorni pieni di nebbia, devoti alla nebbia, colmi di nebbia, arrivavano le parole dei genitori o dei nonni a fare memoria dei propri defunti manifestando le proprie tradizioni attinte dai luoghi di provenienza, ciascuno con la propria dimensione di ricordo e devozione. Noi, in casa, eravamo spettatori non partecipanti ma guardavamo fuori dalla finestra cercando di fermare la pioggia, sperando di alimentare la neve, augurandoci di incrementare il mistero della nebbia. Che ci guardava e ci sfidava, soprattutto facendoci intravedere la luce dei lampioni e lasciando tutto lo spazio possibile alla nostra immaginazione. Erano i giorni della luce “celata” e delle parole sottovoce. Erano i giorni che ponevano domande. Erano i giorni delle voci sussurrate e delle ombre incombenti.
Si prendeva il tram e dopo la piazza d’Armi sembrava di entrare in un mondo nuovo. Ma noi preferivamo il viaggio a ritroso, quello dalla città alla campagna in quanto lì potevamo sparire anche a noi stessi, immaginando di volare nel buio, sicuri di essere immortali, a dispetto della ricorrenza dei morti. Ed era in quei frangenti che avevamo la certezza che il nostro non era un pensiero magico ma magia vera…Noi lo sapevamo...si che lo sapevamo...

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